Festival di Venezia – Vermiglio, non convince il verismo artefatto del secondo film italiano in concorso
Ci risiamo. Quando vediamo un film italiano qui al Festival di Venezia, l’impressione ricorrente è che le immagini non sgorghino mai con naturalezza, ma che nascano da pesanti artifici compositivi che vogliono risultare ben fatti e/o belli. Il caso di Vermiglio, diretto da Maura Delpero, è esemplare. C’è il tentativo produttivo dispendioso e ardito di creare un set (l’alta montagna innevata, interni freddi e ruvidi), gli interessanti sottotesti tematici (le proprie radici in bilico, il fatuo dominio patriarcale), l’impegnativa resa degli attori con il dialetto di qualche valle del Trentino. Poi arriva il momento di inquadrare, di far agire gli attori in scena, farli muovere, pulsare dentro lo spazio ripreso. Ecco, non capiamo se sia un’indecisione o un’inesperienza di regia, se siano troppo invadenti le scelte dei direttori della fotografia e degli operatori di macchina sul set (spesso, va detto, tiranneggiano registi e registe), ma il fatto è che i fotogrammi di Vermiglio sembrano vuoti.
Nel 1944 a Vermiglio, un remoto paesino d’alta montagna trentina, vive la famiglia del maestro di scuola (Tommaso Ragno) del paese: sua moglie, una decina di figlie e figli tra vivi e morti, cognate, cugini, mucche e galline. Ancor più su, in una baita, è nascosto un disertore siciliano di cui Lucia, la figlia più grande del maestro, si innamora. Scorrono i mesi, la guerra è finita, Lucia si è sposata ed è incinta del soldato, ma quando partorirà, il marito correrà in Sicilia dove la sua prima moglie lo ucciderà. Questo il bordone narrativo centrale di Vermiglio, quello più evidente, più segnato, perché il film della Delpero è sostanzialmente corale, tanto che la vicenda di Lucia si inserisce paritaria nel brulicare quotidiano grigio, talvolta buffo, talvolta solenne, nelle stanze dei protagonisti, tra sorelle e vicini, e bimbetti pieni di petulanti “perché?”.
Il latte caldo versato col mestolo in tante tazze, i lettoni dove dormono insieme più figli, la messa e le preghiere ancora in latino, il tran tran di Vermiglio segue tempi e abitudini della montagna: i maschi tornati sconvolti dalla guerra o da sempre al lavoro contadino, le femmine in casa a sfornare bimbi, far da mangiare o finire suore. Unica eccezione per le figlie del maestro: c’è qualche spicciolo per farne studiare una.
Come accennavamo poc’anzi, il problema di questo film sta tutto nel tentativo di osservare asetticamente, con anonime ed artificiose inquadrature fisse il “vero”, la quotidianità aspra e faticosa, i rituali antichi degli umili, quasi fossimo in un documentario di Ernesto De Martino o nell’Albero degli zoccoli di Olmi. Delpero chiede a tutti i suoi attori, uomini, donne, bambini, vecchi e giovani, di compiere gesti e azioni con identica rallentata estenuante andatura. Così, come nella sequenza della processione notturna di Santa Lucia o in quella ricorrente della figlia piccola che legge i quaderni del padre/maestro nascondendosi sotto il tavolo, l’effetto è totalmente all’opposto: tutti questi passaggi minimali forzati (sfoglio, mi alzo, apro l’armadietto, prendo un libro, osservo per un’ora la copertina, ecc…) sanno di pesante e grossolana meccanicità che scimmiotta un realismo d’epoca. Peccato, perché a Vermiglio a un certo punto sembra che comandino le donne, o meglio: che le donne siano improvvisamente più libere di decidere per sé più di quanto abbiano mai fatto prima di allora. Eppure se il patriarca fuma lentamente (lentamente, lentamente…) con lo sguardo vuoto, e nel vuoto, come la ragazza più asociale del paese, difficile far cogliere all’ignaro spettatore le differenze.
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