Il generale Dalla Chiesa: la lotta contro la mafia di un uomo lasciato solo
di Matteo Scirè
La sera del 3 settembre del 1982, alle 21.15, l’auto sulla quale il generale Dalla Chiesa viaggiava insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, venne affiancata da un’altra auto da cui furono scaricate decine di colpi di kalashnikov. Il generale e la giovane moglie morirono sul colpo. Morì anche l’agente di scorta Domenico Russo.
Nel marzo 1981 Enzo Biagi intervista Carlo Alberto Dalla Chiesa in una puntata della trasmissione “Rotocalco Televisivo”. Il celebre giornalista chiede al generale: “Come mai la mafia si rinnova di continuo?”. La risposta è emblematica: “Ma io so che si parla di mafia, si esamina la mafia dal 1861. Quindi vorrei dire che più che un rinnovarsi di mafia è un rinnovarsi di esami e di analisi da parte di commissioni parlamentari e non, mentre invece questo rinnovo avrebbe dovuto comportare, volta a volta, strumenti idonei a garantire a chi operava di poter contenere e reprimere la mafia. Si è fatto sì, nel tempo, che dall’aia colonica la mafia si sia potuta trasferire anche nelle pieghe delle istituzioni dello Stato”.
Dalla Chiesa, che era stato uno dei protagonisti della guerra vinta contro il terrorismo, una grave minaccia alla stabilità della neonata Repubblica italiana, si era accorto che tra le forze politiche, quelle sociali e le stesse istituzioni non vi era la stessa volontà di vincere la guerra contro Cosa nostra. Perché? Come mai questa disparità di trattamento nei confronti di un fenomeno altrettanto pericoloso come quello della mafia?
Già in passato Dalla Chiesa aveva capito che la Sicilia rappresentava una zona franca per Cosa nostra, grazie al consenso sociale e politico di cui godeva e alla rinuncia da parte dello Stato ad esercitare le sue funzioni. Durante le permanenze in Sicilia il Generale aveva potuto constatare l’elevato livello delle collusioni mafiose, l’omertà e le connivenze che condannavano a morte diversi uomini della società civile, delle istituzioni all’isolamento e alla morte senza che lo Stato reagisse in maniera adeguata per fare giustizia e ripristinare la legalità. Fu così nel 1949 quando a Corleone indagò sull’omicidio del sindacalista della Cgil Placido Rizzotto. Con le sue indagini riuscì ad incriminare il boss Luciano Liggio, ma la risposta della giustizia e dello Stato fu nulla. La stessa cosa accadde in occasione della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, che aveva scoperto materiali scottanti sul caso Mattei, e dell’assassinio del giudice Pietro Scaglione, che stava indagando sull’ascesa dei corleonesi ai vertici della cupola.
Tutti uomini soli che per senso del dovere e per amore della verità svolgevano il loro lavoro con coraggio e determinazione. Per questo prima di accettare l’incarico nel 1982 come super prefetto a Palermo per arginare la guerra di mafia che insanguinava l’Isola Dalla Chiesa mostrò qualche perplessità. Le rassicurazioni del governo circa il conferimento di poteri speciali lo convinsero a tornare in Sicilia. Purtroppo quei poteri speciali non arrivarono mai, neanche a seguito delle frequenti lamentele dello stesso generale sulla scarsità di mezzi e risorse necessarie per combattere la mafia. “Mi mandano in una realtà come Palermo – commentò una volta amaramente – con gli stessi poteri del prefetto di Forlì”.
La sera del 3 settembre del1982, alle 21.15, l’auto sulla quale il generale Dalla Chiesa viaggiava insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, venne affiancata da un’altra auto da cui furono scaricate decine di colpi di kalashnikov. Il generale e la giovane moglie morirono sul colpo. Contemporaneamente altri due killer in sella ad una moto stroncarono la vita dell’ agente Domenico Russo, che seguiva i coniugi Dalla Chiesa con l’auto di scorta.
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