Quasi duecento ambientalisti uccisi nel 2023 per le loro battaglie: il report della ong Global Witness. “Nessuna regione al mondo è sicura”
Nel 2023 sono stati in totale 196 gli ambientalisti uccisi a causa delle loro battaglie. La stima viene dall’ultimo rapporto “Missing voices” della ong britannica Global Witness, che dal 2012 monitora ogni anno a livello globale gli omicidi legati all’attivismo ecologista. Il numero reale, però, potrebbe anche essere più alto, visto che in alcune zone del mondo risulta particolarmente difficile recuperare informazioni su questo genere di crimini. “L’omicidio rimane a oggi una strategia comune per mettere a tacere i difensori dell’ambiente e gli attacchi letali spesso si verificano insieme a rappresaglie più ampie contro individui che vengono presi di mira da governo, aziende e altri attori non statali con violenza, intimidazioni, campagne diffamatorie e criminalizzazione. Ciò sta accadendo in ogni regione del mondo e in quasi ogni settore”, si legge nel documento. Il report, infatti, dimostra che non c’è una regione in tutto il pianeta in cui chi si batte contro deforestazioni, inquinamento e accaparramento di terre possa ritenersi al sicuro da minacce e discriminazioni di vario genere e gravità.
Dal 2012 ad oggi la tendenza non ha avuto alcun segno di miglioramento: gli attivisti uccisi sono stati 2.106, in media più di 260 all’anno. La regione più pericolosa è sempre l’America latina: l’85% degli omicidi è avvenuto in questo continente. Il Paese più insanguinato è la Colombia, in cui 79 attivisti sono stati assassinati nel solo 2023: seguono il Brasile con 25, l’Honduras e il Messico con 18. In risposta alla pubblicazione del rapporto, il governo colombiano ha emesso una dichiarazione in cui ha definito “disonorevole” il primato attribuito allo Stato dall’organizzazione, affermando che la grave situazione è dovuta ai “conflitti socio-ecologici associati al narcotraffico, alle pratiche estrattive connesse alle economie illecite e alla riconfigurazione del conflitto armato”.
Per quanto riguarda lo stato dell’ambientalismo nei Paesi del cosiddetto “nord del mondo“, invece, è stato redatto un rapporto dalla ong Climate Rights International, che studia le conseguenze del cambiamento climatico al rispetto dei diritti umani. Il documento evidenzia le misure sempre più dure e repressive messe in atto da Australia, Stati Uniti e gran parte dei Paesi europei per arginare le proteste sul clima. Negli ultimi mesi, rileva la relazione, sono state registrate condanne record per proteste non violente in diversi paesi, arresti e detenzioni preventive per i sospetti organizzatori, approvazione di leggi draconiane che rendono illegali la maggior parte delle proteste pacifiche e altre misure volte a impedire alle giurie di ascoltare le motivazioni degli accusati.
“Troppo spesso i governi difendono il diritto alla protesta pacifica in altri Paesi, ma quando non gradiscono certi tipi di proteste in patria, approvano leggi e schierano la polizia per fermarle”, dnuncia Brad Adams, direttore di Climate Rights International. E l’Italia non fa eccezione: quest’anno sono stati approvati il ddl sui cosiddetti eco-vandali, che ha inasprito le sanzioni per chi imbratta i monumenti con vernice lavabile, e una norma che prevede il carcere da sei mesi a due anni per i responsabili di blocchi stradali.
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