Le origini di un Nobel in un paese friulano: Rubbia e le sue radici
Che ci fa quel bambino biondo in mezzo alle galline in un cortile di quasi 90 anni fa? Forse sta sognando di vincere addirittura il Nobel per la Fisica? Sì, se il suo nome è Carlo Rubbia. Stiamo scherzando, ma solo un po’ e solo per raccontare una piccola grande storia friulana.
Ma chi scrive la Storia? A chi credere? A chi la scrive in un comodo e ampio studio o nel silenzio di una grande e lontana biblioteca? O a chi c’era, alle sue lettere forse povere per gli esperti ma interessanti, se non fondamentali, per capire il respiro quotidiano di una persona, di una famiglia, i ritmi di un paese sperduto, di un mondo in trasformazione?
Come ci insegnava il poeta Galliano Zof, è quest’ultima la vera storia, pur con i suoi limiti letterari, con il timore dei controlli e delle censure, con uno stile certo non troppo alto, ma più incisivo. Lo stile di una lettera a un familiare lontano per studio o per lavoro o per scelte di vita è semplice e vero ed è quello che si legge fra le righe dell’epistolario di casa Verzegnassi tra Perteole, Gorizia, Padova, altre città italiane e l’Argentina. Pubblicandolo, Adriana Miceu, instancabile e precisissima raccoglitrice e narratrice di storie piccole e grandi che grazie al suo lavoro non cadranno nell’oblio, ci restituisce “immagini” della Bassa friulana e della Nizza austriaca della prima metà del Novecento, ricche di sorprese.
La sorpresa comincia con il titolo, “Le radici di un Nobel”, edito dalla benemerita associazione Cervignano Nostra. Perché Nobel? Perché a casa Verzegnassi, nel cortile, fra gli animali, giocava un giovanissimo Carlo Rubbia, pronipote di Francesco Verzegnassi, il patriarca, avvocato a Gorizia, primo deputato a rappresentare la nostra terra al Parlamento di Vienna.
Come recita il sottotitolo, Adriana indaga, raccoglie e racconta «lo scorrere del tempo nella famiglia dei nonni materni di Carlo Rubbia: dalla vita a Perteole in tempo di Guerra a quella nella Gorizia redenta».
Una vita che possiamo conoscere grazie ai documenti messi a disposizione della ricercatrice da Paola Mattioli, umanista e discendente dei Verzegnassi, fonte e una “spalla” fondamentali.
Ed è una vita a passo di donna, perché le lettere sono vergate da donne in un trentennio che parte dallo scoppio del primo conflitto mondiale. Sarebbe un errore concludere che si tratta di cose di famiglia. Certo, si parla di lavoro, malattie, studio, difficoltà e qualche gioia, ma la “cornice” delle missive si amplia, restituendo il quadro di un’epoca difficile, dura, preoccupante nei suoi sviluppi (Mario, unico figlio maschio di Francesco, in una notte dilapidò il patrimonio di famiglia), ma vissuta con dignità, misura, saggezza, grazia: sia a Perteole, la culla dei Verzegnassi, sia a Gorizia, dove altre vite sono sbocciate e altre frequentazioni hanno fatto conoscere la famiglia, prima di tutto con l’avvocato Francesco, deputato liberale al Parlamento asburgico, e poi con sua figlia Gemma, pittrice per vocazione e per scelta di vita, quasi una sacerdotessa dell’arte, amata e ammirata anche all’estero, ma poco considerata da noi, forse perché era una persona riservata che per la propria formazione aveva scelto la strada per Vienna e Monaco e non quella per la più vicina Venezia.
Infine, in un lungo riflesso, con Carlo Rubbia, cui è dedicato il capitolo finale del libro tra ricordi lontani eppur presenti e i memorabili e festosi incontri a Gorizia.
Il futuro premio Nobel viene raccontato dalle zie e dalle parenti. Il suo destino sembrò subito quello della scienza. Oltre all’amore per Perteole e per la Tarabana, nonna Ina gli insegnava a guardare avanti e in alto: nelle sere più nitide si affacciava con lui sul terrazzino della casa goriziana di via Corsica, gli faceva imparare i nomi delle stelle e l’importanza delle fasi lunari per l’uomo e la terra.
La nonna materna, mamma Ici e papà Silvio gli hanno insegnato prima di tutto la curiosità. Commenta lo stesso Rubbia: «I miei mi raccomandavano: credi in te, guarda avanti. Penso di averli ascoltati. Guardo molto avanti ancora oggi, fino al limite del possibile. Sono sempre curioso. Cerco ancora dentro di me lo stupore ingenuo dell’infanzia. È nel bambino che vediamo la scintilla della curiosità. Nel bambino che rompe il giocattolo perché vuole sapere com’è fatto. La curiosità, non la saggezza, ha trasformato l’uomo».
Da un piccolo paese friulano a una città, dal microcosmo della Bassa e di via Corsica all’universo, dai giochi infantili al Nobel del 1984: è una questione di radici. Che Adriana Miceu ora condivide con noi.