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Ноябрь
2024

Muore dopo due trapianti di fegato, risarcimento da 847mila euro ai familiari

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Una gravissima insufficienza renale ed è naufragato il primo trapianto di fegato – duranto ben 11 ore e avvenuto nell’Azienda ospedaliera di Padova – tanto da intubare il paziente, privo di conoscenza, e attaccarlo a un ventilatore per respirare. Ma le condizioni peggiorano. E a quattro giorni di distanza, un secondo trapianto.

Tutto inutile di fronte a una trombosi alle gambe che neppure un intervento chirurgico urgente è in grado di fronteggiare.

Ed è arrivata la morte per Gaetano Soria, 54enne di Napoli, da diversi anni in lista d’attesa per la sostituzione del fegato: è il 12 luglio 2015.

Nove anni più tardi, la Corte d’appello di Venezia-quarta sezione civile ha riconosciuto ai familiari un risarcimento, condannando l’Azienda padovana a pagare una somma complessiva di 847.210 euro (in particolare 273.430 euro alla moglie e 286.890 euro a ciascuna delle due figlie) oltre a interessi e rivalutazioni; in più dovrà saldare 29.193 euro e 18.511 euro per le spese del primo e del secondo grado di giudizio.

La sentenza ribalta una precedente decisione del giudice civile padovano Elisa Rubbis che, al contrario, aveva bocciato ogni richiesta avanzata dalla famiglia del paziente, pronta a impugnare il verdetto sfavorevole assistita dall’avvocato del foro di Napoli, Antonio Muni.

Ora all’Azienda ospedaliera (difesa dal legale Erica De Candido Romole) non resta che proporre ricorso in Cassazione, terzo e ultimo grado di giudizio. Un ricorso che, tuttavia, non riguarda il merito della vicenda, non più modificabile, ma soltanto eventuali vizi di legittimità.

«Va affermata la responsabilità medica per negligenza, accogliendo il primo motivo d’appello», scrivono i giudici (il presidente Marco Campagnolo affiancato dai colleghi Sanfratello e Bordon).

Un errore è stato individuato dai giudici nella scelta dell’organo da espiantare la prima volta, come ribadito dal consulente della famiglia, il medico legale padovano Gaetano Quaranta: «Il fegato espiantato (l’organo del paziente) aveva un peso di 1090 grammi mentre il fegato impiantato nel corso del primo intervento pesava 2,8 chili, peso superiore al limite ritenuto tollerabile dalle linee guida...».

I giudici hanno rilevato che «l’eccessiva dimensione dell’organo trapiantato rispetto all’alloggiamento disponibile, ha determinato una compressione meccanica delle strutture vascolari e anche sul diaframma».

Inoltre il paziente aveva una milza dieci volte superiore al peso di una milza normale, il che «... porta a ritenere la sussistenza di un apprezzabile errore nell’esecuzione dell’intervento» precisano i giudici, secondo i quali «per rimediare all’insufficiente vascolarizzazione del fegato trapiantato... venne utilizzata l’arteria splenica ovvero la principale fonte di irrorazione della milza».

Insomma milza molto grossa e nuovo fegato altrettanto grosso. Il risultato? «La parete addominale è per sua natura elastica» si legge nella sentenza, eppure «se ha consentito di trattenere in sede l’organo impiantato, non ha impedito la pressione del medesimo sul sistema vascolare. In definitiva il verificarsi dei successivi eventi trombotici, che hanno condotto al decesso il paziente, costituiscono la conseguenza diretta di errori nell’esecuzione del primo intervento e non già di mere complicanze come preteso dall’Azienda ospedaliera. Errori che avrebbero potuto essere evitati... La possibilità di sopravvivenza nel trapianto di fegato oscilla fra il 40,8 e l’84,6%» osservano ancora i giudici, «e il signor Soria apparteneva alla classe della popolazione per la quale la probabilità era più elevata».

La conclusione: «Nel caso concreto l’insuccesso va ricondotto unicamente alla mancata adozione di quelle metodiche che si rendevano necessarie in considerazione delle dimensioni del fegato rispetto alla dimensione della cavità addominale destinata ad alloggiarlo... non essendo emerso alcun fattore anomalo o imprevedibile che possa essere considerato quanto meno concausa dell’insuccesso e come tale far regredire l’errore a mera complicanza».

I familiari avevano pure presentato un esposto in procura. L’inchiesta penale, avviata contro ignoti, era stata archiviata su richiesta di ben due pubblici ministeri.




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