“Camàn”, i diari inediti di Stelio Mattioni prigioniero in Nord Africa
Un invito a muoversi spediti dà il titolo al romanzo di Stelio Mattioni Camàn (Edizioni Ares, pp. 260, euro 18,00), che altro non è se non la trascrizione fonica di “come on”. Così i carcerieri inglesi apostrofavano gl’italiani prigionieri, nudi e in fila per il rancio nel campo egiziano di Helwan, dopo il disastroso epilogo della guerra nel deserto combattuta durante il secondo conflitto mondiale in Nordafrica.
Qui, recluso, si trovava tra il 1942 e il 1946 anche Stelio Mattioni, mandato allo sbaraglio come altre migliaia di combattenti che, vittime di una propaganda ingannevole, si erano tuttavia battuti con forza e determinazione.
Roberto Spazzali, nella sua puntuale Postfazione, traccia la storia delle operazioni militari in Africa e di quella dell’allora ventenne allievo della Scuola bersaglieri di Pola, lo scrittore appunto, anche lui succube dei miti di un regime che sublimava la guerra come sacrificio dovuto alla Patria. Il giovane, divenuto poi sottotenente, ha naturalmente fatto il suo dovere fino all’ultimo in quel “tempo di uccidere”, ma ha dovuto sperimentare pure la realtà della prigionia: anonimo numero 373316, ha affrontato un surreale “tempo di sopravvivere”, con tutti i disagi fisici e psicologici del caso, chiuso com’era in recinti isolati dal resto del mondo.
Alla luce fioca di un lucernaio, disteso sulla branda, riusciva intanto a prendere appunti su un taccuino, fortunosamente riportato a casa. Nell’Introduzione a Camàn, ora finalmente edito, la figlia Chiara traccia la storia di questo diario, in realtà il libro d’esordio di Mattioni, di cui esiste una prima stesura databile tra il 1949 e il 1952, e una seconda, collocabile nel 1985, in concomitanza con la stesura di un altro romanzo, Dove.
Anche qui veniva evocata una guerra che, seppur vittoriosamente terminata, non aveva tuttavia eliminato la presenza del nemico: questo, ricacciato al di là della frontiera, continuava infatti a permanere anche al di qua, invisibile eppure presente nei segni luttuosi lasciati al suo passaggio. Lo scrittore sembra aver voluto adombrare dunque, piuttosto che le ragioni di uno scontro militare, il dramma della condizione umana, in balia di un mondo in cui non si riesce a scoprire la verità dell’esserci.
Pur nella precisione dei dettagli con cui Mattioni illustra la vita degli “straccioni”, come venivano chiamati i prigionieri, anche Camàn è un racconto che sfuma in una dimensione esistenziale. Non si trovano nel testo commenti che rimandano alla responsabilità storica della disfatta, proprio perché l’intento è innanzitutto quello di indagare sul perché gli uomini sono come sono. Fin dalle prime pagine, infatti, la narrazione viene immessa in un’atmosfera surreale, che vede un bambino e un vecchio entrare ed uscire dal campo senza imbattersi in recinzione alcuna.
Ma, interrogati, non riescono a rispondere alla domanda degli straccioni, che chiedono dove si possa trovare il varco. Per sapere cosa succede fuori da quella bolla senza tempo i reclusi devono accontentarsi di strappare qualche sporadica notizia sul mondo da brandelli di giornali che il vento sbatte sui reticolati. La prigione sembra profilarsi dunque come metafora della vita. L’impossibile libertà, cui l’uomo invano tende, è del resto un tema affrontato più volte da Mattioni, da ascrivere molto probabilmente alla sua esperienza di prigionia: Il re ne comanda una vede un uomo che con una sola occhiata controlla un harem femminile; in Palla avvelenata un barbone soggioga un gruppo di ragazzi; in Vita col mare una donna costringe il comandante di una nave ad abbandonare il mare, provocandone la morte.
L’ultima stesura di Camàn risale al 1996, l’anno precedente la morte di Mattioni, che non ha voluto, come dichiara nella Premessa, apportare modifiche sostanziali a quel testo. Pur svelando i soprusi di chi comanda, aveva dedicato uno spazio più ampio ai comportamenti dei singoli “straccioni”, dai soprannomi piuttosto stravaganti, Allorquando, Però, Tutti, Sospiro, Maggio, Aprile, e che in qualche modo si sono ingegnati a ingannare e la lunga attesa: chi faceva ginnastica, chi ha smesso di fumare, chi cercava di dare una parvenza di normalità al tempo sospeso organizzando nel campo concerti, spettacoli teatrali, di varietà, incontri di box.
Dentro il recinto, che non si poteva valicare pena il costo della vita, i confini in alcuni momenti sembravano così svanire. Circolavano anche sentimenti d’affetto verso gli animali del campo: un topo veniva amorevolmente sfamato e fatto divertire su una ruota girevole; il gatto Fifina era teneramente allevato, il pollo Pollo veniva chiamato a difendersi per aver attaccato la passera Celeste. Ma morivano, nonostante la cura di chi voleva loro bene, proprio come gli uomini. Che si tratti di una lettura della storia in chiave etica sembra confermarlo l’interrogarsi sul destino che attende i singoli prigionieri allorché, nel porto da dove sta per partire la loro nave, appare la bianca statua di un uomo con il braccio alzato per indicare la via: ma «quale, per chi è stato per anni a spurgare nella sabbia, come una lumaca d’allevamento?» —
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