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“Ramelli figlio d’Italia”. Dal palco di Atreju mai più spranghe e P38, ma c’è chi ancora soffia sul fuoco

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Ad Atreju riflettori puntati sul ritorno della violenza politica, magari sotto forma di farsa rispetto a quella drammaticamente seria degli anni ’70. Si parte dalle novelle immagini come la P38,  dai manichini della premier e dei ministri  macchiati di sangue, dalle foto di Meloni a testa in giù, dai banchetti degli studenti di destra distrutti alla Sapienza di Roma, dai giornalisti a cui viene impedito di parlare. Violenza a senso unico. Ci sono le condizioni per una pacificazione che metta la parola fine alla guerra civile strisciante di questo interminabile dopoguerra? E chi soffia sul fuoco? Domanda complessa,  divisiva direbbe qualcuno, affrontata dal palco della kermesse di FdI durante la tavola rotonda dal titolo “Dalla violenza ideologica al pensiero critico La via italiana al confronto”.

Violenza politica e pensiero critico, tavola rotonda a più voci

Sollecitati dalle domande di Antonio Rapisarda, direttore del Secolo, si confrontano i ministri Giuseppe Valditara e Anna Maria Bernini,  collegata da remoto, Paola Frassinetti, sottosegretario al ministero dell’Istruzione, e i giornalisti David Parenzo e Tommaso Cerno. “I simboli di una stagione sono importanti”, sottolinea Rapidarda passando in rassegna gli ultimi episodi di violenza culminati con l’immagine degli studenti di Azione universitaria costretti a uscire dall’ateneo più grande d’Europa scortati dalla polizia. “La violenza ideologica sta tornando sotto la miccia della questione palestinese. Qualcuno ha recuperato la manovalanza antifascista, qualcuno ha strumentalizzato perfino la tragedia di Giulia Cecchettin. Siete preoccupati?”, chiede agli ospiti. ” O si tratta di un fuoco di paglia?”. Più della violenza in sé  il ministro dell’Istruzione, bersaglio privilegiato dei manifestanti antifà, è preoccupato la mentalità che c’è dietro. “Non si deve mai mirare a colpire l’avversario politico, quando si considera un nemico da abbattere, allora bisogna preoccuparsi. È un atteggiamento tipico dei regimi totalitari, Stalin resta un maestro. Quando l’operazione non riesce allora si falsificano le idee dell’avversario. Quando hanno bruciato per la prima volta la mia immagine era per contestare la riforma tecnico-professionale. Dicevano  che volevo aziendalizzare la scuola, una balla clamorosa”.

Valditara: tornare alla cultura del rispetto e al valore dell’autorità

Poi il discorso scivola sui valori di autorità, di rispetto e di merito: stelle polari del nuovo corso dell’istruzione firmata dal centrodestra. Valori che le opposizioni considerano repressivi o fascisti. “Ma sono valori democratici”, dice Valditara. Pensiamo agli studenti che si rifiutano di spegnere il cellulare in classe e rispondono al professore “ma tu chi sei?” quando non lo prendono a pugni. “La cultura del rispetto non c’entra nulla con l’autoritarismo, il contrario di autorità è l’anarchia”, rincara la dose il ministro. E il senso di responsabilità? Scomparso. Il merito? Una parolaccia. La responsabilità non è della  società, vecchio mantra progressista, ma della persona. Chi sbaglia deve pagare. Cosa dire dei democratici studenti del lieo Virgilio  che  fanno il barbecue con i banchi e gli armadi della scuola?”. È d’accordo anche il libertario Parenzo che però precisa che la perdita dell’autorità va di pari passo con la perdita dell’autorevolezza. “Se vale tutto – dice –  se uno vale uno, quando il parere di Pregliasco  vale come quello di Heather Parisi, allora c’è un problema”. L’intervento di Rapisarda che ricorda l’eredità del ’68, di una matrice politica precisa, chiude la partita.

Frassinetti: Ramelli figlio d’Italia

Di forte impatto emotivo l’intervento di Paola Frassinetti, interamente dedicato a Sergio Ramelli, lo studente di destra ucciso a colpi di chiavi inglesi 50 anni fa a Milano. “Era uno studente normale – dice Paola, un lungo passato di militanza a destra (quando mi dissero a scuola ‘tu non puoi parlare mi iscrissi al Fronte della  Gioventù’), che lo conosceva bene – ed è stato un esempio di pensiero critico, fu assassinato per un tema sulle Br”. Al nome di Ramelli scatta un lunghissimo, quasi interminabile applauso. La platea è in piedi, Frassinetti fatica a riprendere l’intervento, la commozione è palpabile. Anche tra i giovanissimi che non hanno vissuto quegli anni bui nei quali per gli studenti frequentare i licei era un calvario quotidiano. “La cosa più grave è quel brutale omicidio matura nella scuola. Dopo il tema, Sergio è costretto a lasciare la scuola pubblica ma neppure questo bastò a salvargli la vita. Un  gruppo di studenti di medicina, servizio d’ordine di avanguardia operaia, decide di pedinarlo, mentre sta slegando il suo motorino in 5 lo aggrediscono. Sergio muore dopo oltre 40 giorni di agonia”. Una storia simbolo di quella violenza ideologica cieca e disumana. “Vorrei che Sergio fosse ricordato come un ragazzo di tutti,  non di parte, vorrei che diventasse un figlio d’Italia”, conclude Frassinetti. Questa la strada, quella di una ricomposizione oltre la destra e la sinistra di una memoria comunitaria, nel nome dell’identità nazionale. Ma bisogna essere in due.

Parenzo: non mi spaventa il fischio, ma l’istigazione alla violenza

“Tu non puoi parlare” è la frase iconica con cui un gruppo di sedicenti antisionisti hanno impedito a Parenzo di parlare all’università. “Eppure – provoca Rapisarda – c’è la narrazione di un governo Meloni che reprime il consenso,  che chiude i rave. Possiamo dire che la verità è opposta?”. Parenzo la prende alla lontana, ricorda la violenza politica che si respirava a Padova dove ha studiato. Per questioni anagrafiche  non ha vissuto gli anni dell’aggressione  alla sezione missina in cui vengono freddati Mazzola e Giralucci  (17 giugno 1974),  ma conosce bene il tema della violenza. “Da parte mia – si lascia andare a una nota autobiografica – la cosa più eversiva che ho fatto è stato lanciare preservativi contro la porta del Provveditorato per protestare contro l’allora ministro Rosa Russo Jervolino”. Parenzo non crede al rischio che tornino quelli anni, condivide il ragionamento sulla memoria di Ramelli da condividere, “è parte  del dramma della storia del nostro paese”, definisce “un idiota” chi oggi fa il simbolo della P38. Poi, in nome di una malcelata par condicio, invita a non drammatizzare le parole.  “Quando Landini parla di rivolta sociale  non immagina le piazze con i bulloni”. Morale, per il conduttore de L’Aria che tira  non si può mettere il bavaglio alle parole. Eppure un tempo si diceva che potevano diventare pietre, si discettava con preoccupazione sulle responsabilità dei cattivi maestri. Per Parenzo il discrimine è l’istigazione alla violenza. “Non mi spaventa il fischio, anzi. Il dissenso si manifesta così. Ma quando c’è l’istigazione alla violenza c’è reato. Quando meni la polizia e fai danni ha ragione il ministro devi pagare tutto”.

Cerno: alla sinistra non va giù la destra primo partito di governo

Sulla matrice della violenza di questa stagione Cerno ha le idee chiarissime e le butta lì con la sua oratoria incalzante e brillante che infiamma la platea di Atreju.  “Un magistrato può criticare il governo ma se un giornalista pubblica la mail di un magistrato che invita alla pugna contro la premier allora tocca il bassofondo della comunicazione. Non è violenza politica anche quella?”, chiede Rapisarda. “Avete mai chiamato la festa dell’Unità la festa degli stronzi, loro vi hanno chiamato ‘Atreju, a tro..’ La verità è che in Italia, mentre tutti progettavano qualcosa di diverso un partito riesce ad andare al governo vincendo le elezioni. A loro non sembra democratico”., esordisce il direttore del Tempo. Il discrimine è limpido: dal palco di Atreju  si invita Bertinotti, che non è proprio un camerata, altrove gli studenti di sinistra cacciano Capezzone e Parenzo. La violenza è intrinseca a una sinistra che non ci sta, che non riesce a mandare giù che, dopo Berlusconi, combattuto invano per venti anni, una destra diventi il primo partito di governo, con un profilo democratico che FdI dimostra di avere. “La grande vincitrice del 900 cioè la sinistra, che ha vinto tutti i campionati, in questo millennio è in serie b e invece di tornare in seria a”,  dice Cerno, “vuole prendere il posto della Meloni chiamandola fascista”. Prima del collegamento con il ministro Bernini Parenzo prova a introdurre il tema fascismo (“ma non sono qui ad agitare il fascismo ad minchiam”) che non sarebbe del tutto estraneo alla destra, ma non attecchisce. Quando loda l’inchiesta di Fanpage che avrebbe contribuito a fare chiarezza ci pensa la ministra dell’Istruzione a fare chiarezza. “È difficile decontestualizzare, è difficile farsi un’idea chiara di qualcuno che non sa di essere ripreso”. “L’università non è una zona franca dove si possono fare reati”, dice Bernini sottolineando che il diritto allo studio è di tutti, che tutti hanno il diritto di entrare e frequentare le lezioni. E poi – insiste-  attenzione a far passare per studente chi studente non è. I bravi ragazzi che minacciano gli studenti di destra sono agitatori. “Vogliono solo fare casino, non sanno di cosa parlano, non sanno perché protestano, sono razzisti che strumentalizzano eventi internazionali”. Sono antagonisti, attivisti dei centri sociali fuori corso. “Non chiamateli studenti”, dice rivolgendosi anche alla stampa. E i giornalisti presenti sorridono.

L'articolo “Ramelli figlio d’Italia”. Dal palco di Atreju mai più spranghe e P38, ma c’è chi ancora soffia sul fuoco sembra essere il primo su Secolo d'Italia.




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