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I 220 miliardi di ragioni per questa lettera a John Elkann

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Caro John Elkann ti scrivo così mi distraggo un po’. E siccome sei molto lontano più forte ti scriverò. Ti confesso che quei 100 milioni di euro che hai dato all’amministratore delegato Carlos Tavares per metterlo alla porta non riesco proprio a digerirli. Certo, tu potresti dirmi: sono soldi miei, ne faccio quello che voglio. Ma ne sei proprio sicuro?


La vostra famiglia è abituata a vivere sulle spalle dello Stato italiano. Da sempre. Tuo bisnonno Giovanni Agnelli nel 1933 si presentò all’allora presidente dell’Iri, Alberto Beneduce per parlare della privatizzazione dei telefoni di Stato. «Noi li prendiamo» disse, «ma solo se lo Stato ci dà una dote di 700 milioni di euro». Proprio così: se ci pagate, ci degniamo di diventare padroni dei telefoni. La proposta indecente fu bocciata da Mussolini: «Questi grandi industriali sono solo dei grandi coglioni» disse. E, nella circostanza, difficile dargli torto.

Dagli anni Settanta al 2012, poi, è stato calcolato che le casse pubbliche, cioè noi contribuenti, abbiamo versato alla tua famiglia 220 miliardi di lire fra aiuti, contributi, rottamazioni, casse integrazioni e via sussidiando. Ancora durante la pandemia avete avuto un prestito da 6,3 miliardi di euro, per non dire delle commesse per le mascherine (uno dei contratti più costosi e più inutili firmati dal commissario per l’emergenza Covid). Il flusso di denaro, dalle nostre tasche alle vostre, caro Jaki, non si è mai interrotto: per questo il caso di Tavares non può essere considerato come un fatto privato. Fra l’altro a ottobre è stato proprio lui, lo strapagatissimo Carlos, a chiedere al Parlamento italiano altri soldi. «Non servono per aiutare la nostra azienda a vendere auto», spiegava con quel suo tono arrogante. No? E per cosa servono allora? «Per aiutare gli italiani». A fare cosa? «A comprare le nostre auto, ovviamente».

Dicono che quell’uscita, piuttosto infelice, ti abbia fatto arrabbiare, caro John Elkann. E si capisce. Anche perché i deputati italiani, per una volta tutti d’accordo, si sono sentiti presi leggermente per i fondelli e hanno chiesto di poter parlare con te. Lo stanno facendo anche adesso, che Tavares l’hai cacciato a pedate nel sedere. Ora, mentre scrivo non so se cederai alla richiesta, oppure terrai duro nel non degnare il Parlamento italiano della tua austera presenza (anche perché, diciamolo, tu ti senti italiano quanto io mi sento neozelandese...). Ma certo dev’essere una bella rottura doverti occupare anche del Parlamento italiano, con tutto quello che hai da fare, fra le inchieste per evasione fiscale e le liti sull’eredità con mamma Margherita. Insomma: tu sei così impegnato a lottare per le collezioni di quadri di Monet e Picasso, Bacon e Andy Wahrol, per i gioielli e le ville, per quegli orecchini che da soli valgono 78 milioni di euro, e questi deputati osano romperti le scatole per quella piccola bazzecola che è il rischio di chiusura totale e definitiva dell’industria automobilistica italiana?

L’altro giorno ti ho visto nelle foto al tribunale svizzero, chiuso nel tuo piumino blu, accanto ai tuoi fratellini Ginevra e Lapo (quest’ultimo in giacchetta, nonostante il rigore dell’inverno elvetico). Poco distante mamma Margherita con il cachemire beige. Era la prima volta che vi trovavate tutti insieme dopo quasi vent’anni. La notizia è che non vi siete tirati i piatti in testa, anche se l’accordo fra voi è ancora lontano. Ovvio: troppi soldi in ballo. Per altro questa vicenda giudiziaria ha fatto scoprire che molti di quei quattrini li avevate portati all’estero: trust alle Bahamas, fondi in Lussemburgo, conti segreti a Hong Kong e Singapore. La Procura di Torino qualche settimana fa vi ha sequestrato 74,8 milioni di euro, accusandovi di evasione fiscale. E anche questo, se permetti, mi fa un po’ girare le scatole perché da una parte voi per anni avete spremuto i contribuenti incassando aiuti e sussidi. Poi i medesimi contribuenti li avreste fottuti, secondo la Procura, non pagando le tasse. Non è troppo?

Tutto ciò per dirti, caro John Elkann, che la questione dei soldi a Tavares, quel simpaticone che da buon portoghese fa pagare sempre gli altri, non riguarda solo te, ma tutti noi. Ma scusa: perché tu, dopo aver incassato fior di nostri sussidi, hai strapagato un manager (36 milioni di euro l’anno, 100 mila euro al giorno) che non ha fatto altro che combinare disastri? Che ha scommesso, sbagliando, sull’elettrico facendone pagare le conseguenze agli operai? Che in Italia ha progressivamente chiuso tutto quello che poteva chiudere? Che ha perso per strada marchi, posti di lavoro e fette di mercato? Perché lo pagavi tanto se, solo per restare agli ultimi mesi, quest’uomo ha fatto crollare vendite (-33 per cento) e valore dell’azienda (-38 per cento)? Ma soprattutto perché, dopo che hai scoperto tutto ciò, lo mandi via con 100 milioni di euro in tasca? Che cos’è? Il premio Attila? Il bonus Nerone? Più distruggi più guadagni? L’anno vecchio è passato, ormai, caro Elkann. Ma qualcosa ancora qui non va.

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