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Cambiare dittatore non è la libertà

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Ci sono rischi che alla cacciata di un tiranno subentri un altro despota, magari peggiore del primo, come accadde quasi cinquant’anni fa in Iran. Cioè, temo che l’entusiasmo con cui venne accolto Khomeyni si ripeta oggi con il capo dei ribelli siriani al-Jolani.

Massimo Boffa, simpatico e colto ex giornalista di Panorama, tempo fa mi raccontò di come lui, inviato a Teheran alla fine degli anni Settanta, descrisse la rivoluzione islamica di Ruhollah Khomeyni. La cacciata di Reza Pahlavi e lo smantellamento di una polizia segreta, la terribile Savak, che arrestava e torturava gli oppositori al regime dello Scià, gli apparve come una rivolta che avrebbe liberato l’Iran, avviandolo verso la democrazia. Del resto, i movimenti che combattevano la dittatura, alcuni di ispirazione liberale e altri di formazione marxista, sembravano tutti uniti nel sostenere l’ayatollah in esilio a Parigi e nessuno, tra i tanti giornalisti accorsi a raccontare la rivoluzione, pensò che si andasse verso la sostituzione di un regime con un altro, probabilmente più oppressivo e pericoloso del precedente.

In effetti, se gli sgherri della monarchia erano temuti, quelli della repubblica islamica lo sarebbero presto stati ancor di più. Lo Scià, pur avendo abolito i partiti e messo in galera gli oppositori, aveva aperto alle donne, liberalizzando la società e modernizzando il Paese, prova ne sia che le immagini degli anni Settanta mostrano aspetti di vita che paiono occidentali. Ma Khomeyni e i suoi pasdaran, dopo aver illuso molti, riportarono indietro l’orologio, facendo precipitare l’Iran nel Medioevo e negando alle donne qualsiasi diritto.

Il racconto del collega che scambiò la rivoluzione islamica per una rivolta in stile maggio del Sessantotto mi è tornato in mente nei giorni scorsi, dopo la cacciata di Bashar al-Assad. Il regime siriano era conosciuto per essere uno dei più brutali del Medio Oriente. Per anni i gerarchi hanno mantenuto al potere l’erede di una dittatura iniziata nel 1971 con un colpo di Stato e lo hanno fatto torturando e giustiziando gli oppositori. Nel 2011, in coincidenza con le primavere arabe, in Siria è scoppiata una guerra civile e Assad e i suoi generali non hanno esitato a radere al suolo intere città, con l’aiuto degli iraniani e dei russi.

Certo, i ribelli non erano stinchi di santo, dato che fra loro c’erano i peggiori jihadisti e i seguaci di una serie di organizzazioni terroristiche, ma ciò non può giustificare il bombardamento di quartieri civili o il martirio di Aleppo, la seconda città per popolazione della Siria. Insomma, Assad e il suo clan hanno mantenuto il potere con il terrore e hanno pure sostenuto guerre (come quelle in Libano), finanziato omicidi, dato copertura a organizzazioni terroristiche. Dunque, non si può che gioire per la caduta del regime e la fuga del dittatore e dei suoi accoliti.

Tuttavia, ho la sensazione che gran parte dei media minimizzi i rischi che alla cacciata di un tiranno subentri un altro despota, magari peggiore del primo, come accadde quasi cinquant’anni fa in Iran. Cioè, temo che l’entusiasmo con cui venne accolto Khomeyni si ripeta oggi con il capo dei ribelli siriani al-Jolani. Le interviste rassicuranti che il guerrigliero islamico rilascia ai giornali occidentali non mi tranquillizzano per niente. Presentandosi alla stampa, il leader del Comitato di liberazione del Levante (è questo il nome rasserenante che si sono dati i miliziani) ha lanciato messaggi ai governi stranieri, dicendo che non hanno nulla di cui preoccuparsi. Il capo del nuovo governo siriano, Mohammed al-Bashir, al momento del passaggio di consegne con il suo predecessore, il premier del vecchio regime, si è presentato con un completo occidentale: giacca, cravatta e camicia bianca, così da rincuorare chi lo guardava. «Garantiremo i diritti di tutti i siriani, i profughi possono tornare». Eppure, mentre da un lato mostrano un volto sorridente, i nuovi padroni di Damasco hanno già dato il via alla resa dei conti con i vecchi. Non solo mettendo una taglia su 160 gerarchi considerati responsabili di efferati crimini, ma anche lasciando che nel Paese si compiano omicidi e linciaggi dei seguaci di Assad.

«Saranno giudicati secondo le leggi siriane correnti», aveva garantito il premier il giorno del suo insediamento. Ma i video che circolano in rete, con massacri e vilipendio di cadaveri non sembrano lasciar spazio ad alcun processo, quanto soltanto a esecuzioni sommarie. «Stiamo parlando di persone che hanno fatto sparire migliaia di cittadini nelle prigioni» ha replicato al-Bashir. Tuttavia, i crimini del passato non giustificano la mattanza di oggi.

La realtà è che i ribelli siriani assomigliano molto ai talebani e, pur essendo sunniti e non sciiti, ricordano i seguaci di Khomeyni che presero il potere a Teheran. Anche gli studenti coranici che a Kabul sconfissero i russi, come i pasdaran iraniani, si presentarono daliberatori, ma poi sappiamo come finì, ovvero con un regime ancora peggiore.

Leggendo le interviste indulgenti, le dichiarazioni tranquillizzanti, ma anche le frasi concilianti pronunciate da alcuni politici, mi sono dunque ritornate in mente le frasi del vecchio collega di Panorama, che a distanza di anni, guardando com’era finita la rivoluzione islamica, riconosceva di essere incorso in un grande abbaglio.




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