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Maurizio Biancani: il mago del suono dei più grandi artisti

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Varcare la soglia degli studi Fonoprint di Bologna significa respirare la storia del suono e della musica in Italia. Nelle stanze di questo tempio dell’acustica lavora dal 1976 Maurizio Biancani, sound engineer e produttore. Di fianco a lui, seduti davanti al mixer, sono transitati decine di musicisti italiani e internazionali (tra gli altri Brian May dei Queen). «A novembre è venuto a trovarmi Vasco per ascoltare il mixaggio che avevo appena concluso di alcune sue tracce inedite dal vivo, un tesoro nascosto ritrovato di recente dalla Carosello Records. Dieci registrazioni mai pubblicate di canzoni eseguite durante il Tour di Bollicine nel 1983, che adesso sono uscite come chicca di un cofanetto (Live + Live unreleased 40th RPlay Special Edition) che celebra il quarantesimo anniversario di Va bene, va bene così, il primo disco dal vivo di Vasco che vendette oltre un milione di copie. Io ero il fonico di quel tour e quando ci siamo rivisti per ascoltare gli inediti è stato un fantastico viaggio nel tempo. «Sono rimasto piacevolmente stupito» ha detto Vasco. «Riascoltare quelle registrazioni dal vivo quarant’anni dopo mi ha regalato sensazioni bellissime. Le canzoni hanno veramente un tiro micidiale».

La prima volta con Vasco? «Suona il campanello dello studio, apro e vedo un ragazzo con gli occhi azzurri e i capelli lunghi che mi fa “ma questo è uno studio di registrazione? Sono un cantautore e voglio incidere un disco”. L’ho fatto entrare. Quel giorno sono nate un’amicizia e una lunga collaborazione professionale. Per caso, perché prima di venire alla Fonoprint, Vasco e la sua band erano passati da un altro studio esattamente di fronte alla nostra sede, che però non era attrezzato adeguatamente, non c’era nemmeno uno spazio adatto per montare la batteria. Fu il proprietario di quel posto a consigliargli di venire da noi che avevamo appena aperto» spiega Biancani, che tra i suoi progetti più cari annovera la Peter Jacques Band, un ensemble di super musicisti italiani che alla fine degli anni Settanta, inizio Ottanta, fece il botto in America con un paio di album di disco music, tutti «suonati» dalla prima all’ultima nota. Altri tempi.

Il fiume dei ricordi intercetta inevitabilmente Lucio Dalla: «Fu lui a consigliare la location della nostra sede storica in via dei Coltelli, un ex parcheggio che abbiamo sventrato e trasformato nella Fonoprint. Anni dopo, quando ci siamo trasferiti nuovamente, Lucio prese in affitto quei locali per farne una galleria d’arte» racconta. «Il primo passo della nostra collaborazione avvenne quando mi affidò il primo disco degli Stadio. La sua idea era quella di chiamare la band come il quotidiano sportivo di Bologna (Stadio; ndr), ma c’era un problema di copyright. Un giorno ci incontrammo con Italo Cucci che era il condirettore del giornale: “Italo vorrei usare il nome Stadio per la mia band”; Cucci disse che non c’era problema, ma un attimo dopo esserci salutati Lucio si voltò e aggiunse: “Ah naturalmente utilizzo anche il logo del vostro giornale...”. E Cucci: “Certo che a te non basta mai. Fai un po’ quel cavolo che ti pare”» rivela. «Lucio era un genio della musica, un amico, un affabulatore straordinario, un uomo di grande cultura. Certo, aveva un carattere e una personalità forti, gli piaceva provocare e discutere, anche animatamente, per tirar fuori il meglio da quelli che lavoravano con lui. Una volta, mentre io e Guido Elmi (storico produttore e arrangiatore di Bologna, ndr) stavamo lavorando all’album La faccia delle donne, degli Stadio, venne in studio per capire come procedeva il lavoro. “Questo disco non mi piace per niente” sentenziò. “Così non può uscire”. Io e Guido decidemmo comunque di procedere al mixaggio finale. Qualche giorno dopo, tornò e con la faccia più normale e serena del mondo disse: “Bellissimo, avete fatto un grande album”», aggiunge. «Ho lavorato a due dei suoi dischi, 1983 e Canzoni e poi ancora al disco dal vivo con De Gregori, Work in Progress. Verso la fine del lavoro dovevo scegliere la versione di Caruso da mettere nell’album. Arriva all’una di notte per ascoltarla: “È terribile, hai scelto quella sbagliata e anche il mixaggio non mi piace”. E se ne va. Alle cinque del mattino con i quotidiani sottobraccio, paste e cappuccino per me, si ripresenta. Ascolta il lavoro finito e dice “va benissimo così”. Era tutto un gioco, inutile prendersela» commenta.

«La nostra è stata un’amicizia che non è mai finita fino a quando ci ha lasciato. Ero in tour con lui in Europa. A Montreux fece un concerto strepitoso con parti di clarinetto jazz sensazionali. La giornata non era finita. Disse che voleva andare a vedere la statua di Freddie Mercury che guarda verso il lago. Portò con sé delle candele votive, le accese davanti alla statua e si mise a pregare. La mattina successiva alle dieci e un quarto lo vedo che si avvia verso la stanza dell’hotel. Un’ora mezza dopo non c’era più... È stato un colpo durissimo» racconta.

Capitolo Francesco Guccini: «Il primo “grande” con cui ho lavorato: venne in studio per la preproduzione di un suo album alla fine dei Settanta. A pranzo Francesco amava circondarsi dei suoi musicisti, ma anche di amici che non avevano a che fare con il disco. Così, ogni giorno, ci si sedeva in trattoria con 12-15 persone, e lui nei panni del grande anfitrione. Quando mandammo il conto delle spese alla casa discografica, quelle del ristorante erano nettamente superiori a quelle della sala d’incisione. Il rapporto era cinque a uno» ricorda divertito Biancani, che anche con Zucchero nel corso degli anni ha intrecciato un rapporto speciale. «Una volta, mentre eravamo in studio chiede un assolo a quel genio della chitarra che è Jeff Beck. Lui ne manda due o tre. Zucchero li ascolta e poi mi dice “No, non vanno per niente bene, sono stonati”. Il giorno dopo prende il telefono, chiama Jeff che era a New York e gli dice: “Guarda che gli assoli che mi hai mandato non posso usarli, sono davvero brutti”. E Jeff dall’altra parte: “Scusa, ero ubriaco, posso fare di meglio”. E gliene manda di nuovi».

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