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Modena 1950. La strage degli operai: sei scioperanti uccisi dalla polizia

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Il 9 gennaio di 75 anni fa la polizia spara sui manifestanti che scioperano contro i licenziamenti alle Fonderie Riunite. Sei morti, centinaia di feriti. E in tutta Italia scoppia la protesta   Il 9 gennaio del 1950 a Modena si protesta contro i licenziamenti ingiustificati alle Fonderie Riunite. Una vertenza sindacale. Come tante nella storia del nostro Paese. In questo caso, però, restano uccisi sei scioperanti, tutti per colpi d’arma da fuoco esplosi dalle forze dell’ordine: Angelo Appiani (meccanico ed ex-partigiano di 30 anni), Renzo Bersani (operaio metallurgico di 21 anni), Arturo Chiappelli (spazzino disoccupato di 43 anni), Ennio Garagnani (carrettiere nelle campagne di Gaggio di 21 anni), Roberto Rovatti (fonditore di 36 anni) e Arturo Malagoli (operaio ed ex-partigiano di 21 anni). SEI MORTI e centinaia di feriti. La città è sconvolta, ma nel pomeriggio le organizzazioni sindacali e i partiti della sinistra tengono ugualmente il loro comizio. In una Piazza Roma circondata dalla forza pubblica parlano il senatore socialista Alcide Malagugini, Sergio Rossi per la Camera del lavoro e Attilio Trebbi per la Fiom. In tutto il Paese vengono organizzate proteste e scioperi generali e la contestazione arriva anche in parlamento dove, il 31 gennaio, la deputata modenese Gina Borellini – Medaglia d’oro al valor militare, una delle 19 donne italiane decorate (quasi tutte alla memoria) con la massima ricompensa militare per la loro attività durante la lotta di Liberazione – esprime la sua indignazione con un gesto plateale: con molta difficoltà, in quanto amputata ad una gamba, si alza dal suo scranno e affermando «in quel banco siedono degli assassini» raggiunge i banchi del governo per lanciare le foto degli operai morti in faccia al presidente del consiglio Alcide De Gasperi e al ministro Scelba. La Cgil, al termine della riunione straordinaria del suo esecutivo del 10 gennaio, dirama un veemente comunicato di protesta. Esplode la rabbia popolare. «Tutta l’Italia si leva contro il nuovo eccidio!», titolerà l’Unità fotografando quanto accaduto nelle ore precedenti. «Affoga nel sangue il governo», chioserà l’Avanti!. «Il mitra facile e la poltrona comoda» è il titolo del Giornale della Sera; «Ai vivi in nome dei morti» il fondo di Sandro Pertini su l’Avanti! del 10 gennaio. E non sono soltanto i giornali della sinistra a condannare. In città accorrono insieme a Palmiro Togliatti e Giuseppe Di Vittorio (al suo fianco un giovanissimo Luciano Lama) i vertici nazionali del Pci, del Psi, della Cgil. IL GIORNO DEI FUNERALI, l’11 gennaio, la risposta è ferma, la partecipazione popolare imponente ma composta, rigorosamente diretta dalle organizzazioni politiche e sindacali. Togliatti «mostra in pubblico un turbamento autentico e inusitato» che viene notato da molti che gli sono vicino (diversi dicono di averlo visto piangere). Per l’Unità scrive un cronista d’eccezione: Gianni Rodari. «Le bare – dirà – erano portate a spalla da operai, ferrovieri tranvieri, braccianti. Su ognuna di esse un modesto cartello col nome e l’età del caduto. Niente altro. Da tutti i muri della città le fotografie dei caduti rispondevano a quei cartelli». Dal palco parlano il sindaco di Modena, Alfeo Corassori, e il segretario della Camera del lavoro, Arturo Galavotti, poi Giuseppe Di Vittorio, Pietro Nenni e infine Palmiro Togliatti. «L’eccidio di Modena pesa – tornerà a dire una settimana più tardi dalle colonne di Lavoro il segretario della Cgil – e continuerà a pesare per lungo tempo sulla vita italiana. Se De Gasperi e Scelba credono che si tratti d’un semplice “incidente”, d’un fatto di cronaca che sarà presto dimenticato, si ingannano. Il raccapriccio per questo orrendo massacro, diviene più acuto ed implacabile quando si pensa che non si tratta d’un fatto isolato, accidentale. Il numero dei lavoratori uccisi, in soli due mesi, è salito a quattordici! È un primato, un ben triste primato Non un incidente, quindi, ma un sistema, un metodo, una politica». UN SISTEMA, un metodo, una politica. Una pagina tristissima della nostra storia che però si chiude con una nota di speranza. Togliatti deciderà infatti, insieme alla compagna Nilde Iotti di adottare – in realtà un affidamento per motivi di studio – una bambina di sei anni e mezzo, Marisa Malagoli, sorella di Arturo. «Il giorno in cui venne ucciso ricordo che io tornavo a piedi da scuola con mia sorella Renata – dirà – Era un giorno bello ma freddo. Da lontano cominciammo a renderci conto che era successo qualcosa, c’era la polizia e quando fummo vicine alla casa sentimmo le urla e il pianto di mia madre. Il giorno dopo, c’era una nebbia terribile, fummo tutti portati in auto (e quello era già un evento, all’epoca le macchine erano una rarità) all’obitorio dell’ospedale di Modena. La scena mi è rimasta impressa: il corpo di mio fratello, il sangue dappertutto, per terra e sul lenzuolo, gli altri morti». Il processo – intentato peraltro solo contro alcuni operai che avevano partecipato alla manifestazione – dimostrerà in modo inequivocabile «l’uso frettoloso delle armi da fuoco» da parte della polizia, la mancanza di giustificazioni per un intervento armato e pesanti responsabilità del prefetto e di altri funzionari di polizia. La magistratura – fatto mai successo in precedenza in Italia – ordinerà un risarcimento alle famiglie dei caduti. «IO NON C’ERO – scriveva qualche tempo fa Arturo Ghinelli – per il semplice motivo che ero ancora nella pancia di mia madre. Infatti sono nato sei mesi dopo, l’undici luglio. Ma quello che successe quella mattina di gennaio influenzò non poco la mia vita. Il mio stesso nome viene da lì. Io mi chiamo Arturo perché tra i sei operai uccisi dalla polizia davanti alle Fonderie c’era mio zio Arturo Malagoli, fratello di mia madre. Arturo aveva 21 anni, mia madre 23. Per molti anni della mia vita io non sono stato altro che “il figlio della Malagoli”. Anche perché la cosa non si è fermata lì. In conseguenza di quella tragedia famigliare, Togliatti e la Iotti decisero di adottare mia zia Marisa. Così fino a quando abitammo nella vecchia casa popolare di via Como, sul mio letto non c’era la Madonna ma il quadro con il ritratto di mio zio, a cui aggiunsi la foto di Togliatti quando morì nel ’64. Riflettendo penso di aver capito perché mi è sempre piaciuto studiare e poi insegnare storia. Tuttavia non ho mai insegnato ai miei ragazzi gli avvenimenti del 9 gennaio 1950, perché mi sento troppo coinvolto emotivamente. Una sola volta mi è scappato detto: “Un mio zio è stato ucciso dalla polizia”. Perché era un ladro?, mi hanno chiesto. No, mio zio non era un ladro. Mio zio era un lavoratore che lottava per ottenere il diritto al lavoro per tutti come dice l’articolo 1 della Costituzione». Come dice l’Articolo 1 della nostra Costituzione. Repubblicana, democratica e antifascista. Figlia della Resistenza e della Liberazione. * Responsabile archivio storico Cgil nazionale Fonte/autore: Ilaria Romeo, il manifesto

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