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L’intervista. Graziosi: cosa aspettarsi dalla nuova era Trump? Un mainstream “differente”

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La “nuova era Trump” si presenta come un laboratorio politico senza precedenti, in cui si mescolano vecchi capisaldi e nuove alleanze strategiche. Temi cari agli americani, intese con i colossi tecnologici e una rinnovata centralità della religione cattolica, il trumpismo 2.0 assume una forma più strutturata e trasversale. Ma quali sono le prospettive reali di un secondo mandato Trump? E come si posizionerà l’America nel nuovo ordine globale? Ne abbiamo parlato con Stefano Graziosi, analista politico, giornalista de La Verità e scrittore, che ci ha offerto uno sguardo lucido e approfondito sulle trasformazioni di un movimento che, dal 2016 a oggi, è passato da ribellione a paradigma dominante. Tra politica interna e grandi sfide geopolitiche, emerge la rotta tracciata per riaffermare una leadership statunitense attraverso deterrenza e realpolitik, senza mai rinunciare all’imprevedibilità che contraddistingue il tycoon.

Cosa aspettarsi dalla “nuova era Trump”? Ritorno al passato o rivoluzione 2.0?

«Il trumpismo, rispetto all’anno del debutto, si è trasformato e ampliato. Se da un lato mantiene solide radici tradizionali, come il forte legame con la working class e i colletti blu, dall’altro ha incorporato nuovi elementi. La valorizzazione delle classi lavoratrici rimane centrale, ma oggi si affianca all’appoggio di settori un tempo ostili, come quello ipertecnologico rappresentato da Elon Musk. Questo non è un dettaglio di poco conto: aziende come SpaceX hanno strettissimi legami con il Pentagono, una novità che riflette l’evoluzione del trumpismo verso una maggiore integrazione con apparati strategici che in passato gli erano avversi.

A questo si aggiunge una marcata componente cattolica all’interno della nuova amministrazione. Figure come il vicepresidente J.D. Vance, il segretario di Stato Marco Rubio e il direttore della Cia John Ratcliffe testimoniano il peso crescente di un cattolicesimo politico negli Stati Uniti, un elemento che, storicamente, ha avuto una valenza trasversale e un ruolo decisivo nella costruzione di coalizioni. Questa evoluzione va letta in chiave strategica: Trump sta costruendo un movimento che va oltre gli steccati tradizionali del conservatorismo americano, puntando a un discorso nazionale che sia al contempo nazionalista e interclassista. Questo “Trump 2.0” segna un cambio di paradigma rispetto al passato, mostrando una capacità di adattamento che sarà cruciale per comprendere la sua nuova stagione».

Qual è il messaggio strategico che Trump vuole lanciare con le sue nuove alleanze?

«Il fatto è che il trumpismo è ormai mainstream. La rivoluzione politica avviata nel 2015-2016 ha trovato compimento, conquistando non solo le urne, ma anche il discorso pubblico. Se durante la prima amministrazione Trump aveva contro gran parte degli apparati istituzionali e del settore ipertecnologico, oggi personalità come Bezos, Zuckerberg e Musk si sono avvicinate al suo mondo. Questo segna una vittoria culturale e politica che ha relegato il partito Democratico ai margini del dibattito pubblico.

Un esempio interessante è il recente dibattito interno al trumpismo sui visti lavorativi altamente specializzati, un tema che un tempo sarebbe stato prerogativa della sinistra. Il fatto che oggi questa discussione sia condotta nel campo trumpiano dimostra quanto il movimento abbia inglobato e ridefinito dinamiche politiche cruciali».

Alla cerimonia di insediamento ci saranno anche molti leader delle destra europea…

«Sì, ricordiamo che Trump ha sempre respinto l’etichetta di isolazionista, ma in questi anni ha esteso e rafforza il suo network transatlantico. Durante la campagna elettorale ha intensificato i rapporti con Netanyahu, bin Salman e leader europei come Meloni, Orbán e Duda. Tuttavia, The Donald ha sempre privilegiato gli accordi bilaterali rispetto a una collaborazione col blocco Ue, che percepisce come dominato dall’asse franco-tedesco. Questa suo modo di agire riflette una visione pragmatica, mirata anche formare nuove schiere di partner politici contro la Cina».

Qual sarà l’elemento caratterizzante della politica estera della nuova amministrazione?

«La deterrenza sicuramente. Trump eredita da Biden una credibilità americana compromessa dalla crisi afghana, dalla gestione del conflitto in Ucraina e dalle ambiguità in Medio Oriente. La sua leadership si basa sull’imprevedibilità e sulla capacità di incutere timore, come dimostrano le sue dichiarazioni su Groenlandia e Panama. La strategia è chiara: mostrare forza per evitare conflitti, spaventando le potenze revisioniste come Cina e Russia.

Questo approccio non significa essere guerrafondai. Al contrario, Trump utilizza la minaccia militare come leva diplomatica, un concetto che gli Stati Uniti hanno applicato con successo in passato, come durante l’eliminazione di figure chiave come al-Baghdadi e Soleimani».

Le rotte commerciali e geopolitiche, come il Canale di Panama e l’Artico, saranno decisive?

«Assolutamente. La Cina ha già il controllo di due porti strategici vicino al Canale di Panama, e Trump vede questo come una minaccia diretta agli interessi americani, soprattutto considerando l’approccio cinese alle infrastrutture, come nel caso del Pireo in Grecia. Allo stesso modo, l’Artico rappresenta un  tassello chiave per contrastare la cooperazione militare tra Mosca e Pechino. Trump, ovviamente, sa che la deterrenza passa anche dalla capacità di proteggere queste rotte cruciali».

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