Gli italiani ripudiano la guerra: così andranno convertiti (con le buone o con le cattive)
Lo scorso 28 gennaio il Bulletin of the Atomic Scientists ha spostato le lancette del Doomsday Clock, l’Orologio dell’apocalisse, da 90 a 89 secondi alla mezzanotte. Fondato nel 1945 da Albert Einstein, J. Robert Oppenheimer e dagli scienziati che contribuirono a sviluppare le armi atomiche nel Progetto Manhattan, il Bulletin of the Atomic Scientists creò il Doomsday Clock utilizzando l’immagine dell’apocalisse e il conto alla rovescia per monitorare lo stato della minacce nucleari all’umanità. Ad ottanta anni da Hiroshima e Nagasaki, attraversiamo il momento più vicino alla catastrofe mai registrato nella storia: “poiché il mondo è già pericolosamente vicino al precipizio, uno spostamento anche di un solo secondo dovrebbe essere interpretato come un’indicazione di pericolo estremo e un avvertimento inequivocabile che ogni secondo di ritardo nell’inversione di rotta aumenta la probabilità di un disastro globale” – scrivono gli scienziati – “Continuare ciecamente sul percorso attuale è una forma di follia”.
Il giorno dopo questo appello urgente all’inversione di rotta, fondato sul ripristino della ragione – che prevede il disarmo, a cominciare da quello nucleare, e la preparazione di strumenti non armati e nonviolenti per risolvere le controversie internazionali – anche il capo di stato maggiore dell’esercito italiano, Carmine Masiello, audito in Commissione Difesa della Camera dei Deputati, ha parlato della necessità “di un vero e proprio cambiamento culturale”, ma per attrezzare le forze armate a passare dalle “missioni di mantenimento della pace” alla “capacità di produrre operazioni ad alta intensità, attraverso rapidi interventi strutturali” con un “rinnovamento qualitativo e quantitativo dello strumento militare“. Ossia – come aveva già tradotto in un linguaggio più diretto ai suoi sottoposti – “L’esercito è fatto per prepararsi alla guerra. Punto. Quindi questo deve essere un messaggio molto chiaro che dovete avere tutti in testa: fino a qualche anno fa, era una parola che non potevamo utilizzare, ma la realtà ci ha chiamato a confrontarci con la guerra”. E dunque a prepararla, nonostante il pericolo nucleare e l’Articolo 11.
Ma per essere pronti a fare la guerra non sono solo necessarie crescenti spese militari e costosi armamenti, come chiedono la Nato e il presidente Trump (fino al 5% del Pil!), bisogna anche aumentare “la massa necessaria ad affrontare un eventuale conflitto ad alta intensità, che richiede, tra l’altro, la capacità di alimentare e rigenerare le forze impiegate in combattimento”, ha spiegato il generale. La “massa” sono gli esseri umani da mandare in trincea aumentandone continuamente la quantità, ossia il numero, per garantirne la sostituibilità, ossia i pezzi di ricambio. E’ la riduzione dell’umanità da fine a mezzo per la guerra, come avevo già segnalato commentando precedenti interviste dello stesso Masiello.
Dunque, servono subito 45.000 unità in più, ma c’è un problema – riconosce il generale – “i mutamenti generazionali influenzano negativamente il reclutamento”: ragazzi e ragazze non vogliono prepararsi a fare la guerra, non vogliono diventare carne da cannone come i coetanei russi e ucraini e anche per le Accademie militari si registra un calo delle candidature. Non a caso Mark Rutte, segretario generale della Nato, ha intimato di passare ad una “mentalità di guerra” e il presidente del Comitato militare della Nato, il generale italiano Cavo Dragone, ha ribadito che “non potremo avere una mentalità di pace” (Corriere della sera, 17 gennaio 2025). Un’accelerazione sul piano inclinato della follia.
La prima offensiva bellicista è dunque rivolta al “fronte interno”, ai cittadini italiani che, influenzati dal ripudio costituzionale delle guerra, pensano che anche i conflitti internazionali – come quelli interpersonali – non si risolvano con la violenza delle armi, soprattutto in epoca nucleare. Sono essi che andranno convinti, con le buone o con le cattive, che è necessario avviare una gigantesca riconversione al contrario, strutturale e culturale: sottrarre crescenti risorse dagli investimenti sociali e sanitari e trasferirli alle spese militari; occupare i luoghi di elaborazione delle opinioni – dai media alle scuole, dall’editoria alle università – per costruire la minaccia del nemico, persuadere della necessità della guerra, convincere i giovani ad arruolarsi. Prima di decidere di obbligarli.
Operazioni già iniziate da tempo, come segnalano l’Osservatorio sulle spese militari italiane e quello contro la militarizzazione delle scuole e delle università, ma che saranno da qui in avanti intensificate. “Si sa che cosa significa, oggi specialmente, la guerra e la sua preparazione: la sottrazione di enormi mezzi allo sviluppo civile, la strage degli innocenti e di estranei, l’involuzione dell’educazione democratica ed aperta, la riduzione della libertà e il soffocamento di ogni proposta di miglioramento della società e delle abitudini civili, la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso”, avvisava già Aldo Capitini. Salvo la resistenza culturale e politica che sapremo mettere in campo con la forza della nonviolenza, che è l’alternativa razionale alla follia e l’unica via di scampo per l’umanità. Come singoli e come specie.
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