Gli Usa di Trump escono anche dai negoziati dell’Onu per la riforma della tassazione globale chiesta dal Sud del mondo
Né con l’Ocse né con le Nazioni Unite. Nella mente di Donald Trump la protezione degli interessi nazionali passa anche per il “no” a qualsiasi accordo che limiti l’autonomia degli Stati Uniti nel consentire alle multinazionali di pagare pochissime tasse. Così, dopo aver ritirato il Paese dall’accordo sulla tassazione minima globale coordinato dai Paesi più ricchi, il presidente ha anche deciso l’abbandono dei negoziati in sede Onu per arrivare – su iniziativa del Sud del mondo – a una convenzione quadro alternativa sulla tassazione globale
L’ultima mossa non è sorprendente: anche sotto la presidenza di Joe Biden gli Usa, insieme ad Australia, Canada, Israele, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Regno Unito, si erano schierati apertamente contro il tentativo di varare alle Nazioni Unite una governance che preveda una “giusta allocazione dei diritti di tassazione, inclusa un’equa tassazione delle multinazionali” e affronti “evasione ed elusione fiscale da parte degli individui molto abbienti, assicurando la loro efficace tassazione”. Non si erano però chiamati fuori tout court.
L’iter al Palazzo di Vetro è iniziato nel 2023 sulla scorta di una risoluzione presentata dai Paesi africani, che sono stati esclusi dal processo decisionale guidato dall’Ocse e giudicano l’architettura fiscale globale negoziata da 140 Stati inefficace e iniqua perché porta scarsissimi vantaggi ai Paesi poveri e in via di sviluppo. Il Nord globale, che in molti casi consente alle multinazionali di spostare i propri profitti per ridurre l’imposizione e tassa molto poco gli individui più facoltosi, non vuol saperne di ridiscutere l’intesa faticosamente raggiunta nel 2021, ora peraltro pericolante sotto le picconate di Washington. Lo scorso novembre Australia, Canada, Israele, Giappone, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Regno Unito e Usa, le cui legislazioni secondo la ong Tax Justice Network sono responsabili della perdita di 212 miliardi di introiti fiscali ogni anno su un totale di 492 imputabili ad abusi fiscali, hanno votato insieme all’Argentina contro i principi guida della futura convenzione. La Ue si è astenuta, dicendosi però pronta a passare al no se il testo finale verrà adottato a maggioranza e non con il consenso di tutti.
Lunedì, all’avvio dei negoziati formali, il presidente del comitato ad hoc Ramy Youssef ha ricordato che ogni anno “miliardi di dollari vengono persi a causa del profit shifting, della concorrenza fiscale dannosa e di flussi finanziari illeciti” e si tratta di risorse “critiche per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile, proteggere i diritti umani e assicurare una transizione giusta verso un futuro verde“. Parole vuote per la nuova amministrazione Trump: il rappresentante statunitense Jonathan Shrier, come riferisce Bloomberg Tax, ha fatto sapere che gli Usa non intendono nemmeno partecipare alla discussione in quanto l’eventuale convenzione “ostacolerebbe la capacità di adottare politiche fiscali che servano gli interessi di cittadini, aziende e lavoratori”.
Trump, in campagna elettorale, aveva promesso di ridurre ulteriormente l’imposizione sui profitti aziendali, rinnovare e rafforzare i tagli fiscali del Tax Cuts and Jobs Act che avvantaggiano soprattutto le fasce più abbienti e addirittura sostituire l’imposta federale sui redditi con i dazi su beni importati da altri Paesi, suggestione ritenuta velleitaria dagli economisti. Per provare a mantenere gli impegni vuole mani libere. Si chiama fuori dall’accordo “dei ricchi”, con i suoi due pilastri sulla riallocazione dei profitti tassabili e l’imposizione minima del 15%, ma rifiuta anche la proposta alternativa.
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