Foibe, Gobetti: “Il giorno del ricordo non aiuta la riconciliazione perché costruito su una narrazione deformata”
di Rock Reynolds
Italiani, brava gente. Lo si è sentito dire tante di quelle volte, in tono più o meno serio, che abbiamo finito per convincerci da soli che non c’è macchia e non c’è peccato nella nostra storia recente. Io stesso sono cresciuto in seno a una famiglia democristiana che, se non ha compiuto un’operazione di revisionismo storico, ha comunque aderito all’ossessione anticomunista degli anni Settanta, derubricando il Fascismo quasi a una sorta di regimetto da dittatura delle banane.
Di acqua sotto il ponte dell’illusione ne è passata parecchia, eppure continuiamo ad avere soverchie difficoltà a fare i conti con certi trascorsi che, evidentemente, hanno lasciato una cicatrice più che superficiale sulla coscienza nazionale. Inutile girarci intorno: chi ancor oggi si ostina a declassificare il fascismo a una dittatura all’acqua di rose, se non a esaltarne determinati aspetti, ci fa o ci è. Se ci è – e, comunque, anche se ci fa – qualche ripetizione in storia non sarebbe tempo sprecato.
Per questo, mi sento di consigliare caldamente a tutti – anche a chi non sorride riflettendo su Mussolini e sui suoi attuali, imperterriti sostenitori – la lettura de I carnefici del Duce (Editori Laterza) di Eric Gobetti, un intrigante testo attraverso cui lo storico torinese smonta il solito castello di panzane edificato per mondare il ventennio fascista delle peggiori nefandezze da esso commesse e trasformarle in marachelle da commedia all’italiana.
Bastano a spiegare meglio le cose 23 anni ininterrotti di guerre, – perse ancor prima di sparare un solo colpo di fucile – un milione di morti fatti nei paesi invasi e occupati (Albania, Yugoslavia, Ucraina, Etiopia, Libia), 100.000 persone internate nei lager della Libia, – non oratori con tanto di campetti da calcio bensì luoghi circondati da filo spinato, con tassi di decessi talvolta superiori ai famigerati lager nazisti – primogenitura internazionale dell’utilizzo di strumenti di morte come gas tossici (nel corno d’Africa) e bombardamenti aerei a tappeto insieme ai tedeschi nella Guerra di Spagna (poi copiati malignamente da USA e Gran Bretagna)? Non bastano? Eric Gobetti ci ricorda l’estremo militarismo interno ed esterno del regime, l’imposizione totalizzante del pensiero unico, l’apologia della violenza di stato, oltre che l’insipienza militare delle forze armate di Mussolini, vincitrici senza essersi mai imposte realmente sul terreno, se non grazie all’aiuto dell’alleato tedesco. Tutto questo fino al 1941, anno che fa da spartiacque perché, da lì in poi, non ci sarebbero nemmeno più state le vittorie farsa.
Dunque, l’importanza della memoria. E, nel Giorno del Ricordo – un regalo a un pezzo di comunità italiana sfregiata e ancor più a quella parte del nostro paese che “però, la Sinistra…” – vale la pensa soffermarsi sul significato delle parole e dei gesti. Eric Gobetti ha scritto pure un altro interessante saggio, E allora le foibe? (Editori Laterza), che, in un momento come questo, può essere un testo guida.
All’indomani dell’episodio della vandalizzazione della foiba di Basovizza e proprio nel giorno istituito per ricordare la tragedia di un pezzo del nostro popolo, Eric Gobetti risponde da par suo alle nostre domande.
Per prima cosa, un commento sulla “profanazione” della foiba di Basovizza…
«Forse profanazione è un termine un po’ forte. Si tratta di una scritta che inneggia al movimento partigiano, che certo è colpevole di quello specifico atto di violenza, ma è anche uno degli eserciti che hanno liberato l’Europa dal nazismo. Non può essere considerato come l’equivalente di una svastica ad Auschwitz, tanto per capirci, né degli atti vandalici di danneggiamento o distruzione di monumenti, come per esempio è accaduto più volte alla stele, sempre a Basovizza, che ricorda i quattro giovani jugoslavi fucilati dai fascisti nel 1930. Dunque da parte mia una forte critica al gesto (non è il modo migliore per protestare di fronte alla strumentalizzazione politica della vicenda), ma un invito a non drammatizzare un atto puramente simbolico e risolvibile con una passata di cencio in pochi minuti!»
Chi ha voluto il Giorno del Ricordo?
«La legge che lo istituisce è stata votata a larga maggioranza, con l’apporto anche dei DS (ex PCI, poi PD), ma è stata fortemente voluta dalla destra neofascista (primo promotore deputato Meina, di AN, ex MSI, estremista triestino spesso fotografato nel saluto romano), che su questa vicenda ha costruito una narrazione deformata e autogiustificativa fin dalla fine della guerra.»
Siamo sicuri che tale ricorrenza aiuti davvero alla riconciliazione e alla ricostruzione di una memoria storica lucida?
«Siamo sicuri che impedisca la riconciliazione perché criminalizza una parte, quella partigiana, quindi quella che ha fondato la democrazia nel nostro paese. E siamo certi che non favorisca la conoscenza storica perché il modo in cui viene celebrata dalle istituzioni e dai mass-media è molto spesso in contrasto con i dati raccolti dagli studiosi della storia di quelle terre. Territori puramente italiani, sterminio anti-italiano, pulizia etnica… sono tutte affermazioni anti-storiche che vengono costantemente ripetute in maniera ideologica.»
Cosa si sente di suggerire per aiutare i nostri giovani a contestualizzare meglio?
«Purtroppo, la propaganda televisiva, social e scolastica è molto forte su questo tema. Gli slogan di cui sopra si trovano un po’ ovunque, dalle lapidi ai film, dai discorsi presidenziali alle graphic novel. Non resta che affidarsi a chi conosce professionalmente il tema (gli storici) e a chi difende per statuto la democrazia e i valori della Costituzione: i siti dell’Anpi e degli istituti storici della Resistenza offrono molti spunti per cominciare a conoscere correttamente la storia di quei territori.»
La narrazione dominante negli ultimi decenni è quella della popolazione istriana fatta oggetto di indicibili vessazioni. Quasi come se quanto avvenuto prima non fosse mai accaduto. Perché, allora, non aver pensato a un progetto di riconciliazione serio delle due comunità confinanti?
«Tale progetto è stato non solo pensato, ma anche realizzato! Dopo la fine della Jugoslavia, Italia e Slovenia hanno costituito una commissione di storici che ha lavorato quasi dieci anni alla stesura di un testo che aveva proprio quello scopo: riconciliare le memorie divise sulla base dei dati storici inoppugnabili. Quella relazione è stato poi adottata dalla Slovenia nel 2001 ma respinta dall’Italia, che tre anni dopo ha scelto di andare nella direzione opposta: ignorare i risultati degli storici e raccontare la vicenda sulla base di un pregiudizio ideologico. Oggi il testo, abiurato dal Parlamento italiano che l’aveva promosso e finanziato, si trova sulla pagina internet dell’Anpi nazionale.»
Il 9 settembre si celebra l’anniversario della liberazione del campo di concentramento di Arbe e, nel 2023, in occasione dell’80°, le autorità italiane non si sono fatte vedere. Non si è fatto vedere nemmeno il presidente Mattarella. Lei che ne pensa?
«Io c’ero, e con me pochi italiani consapevoli e il presidente nazionale dell’Anpi, Pagliarulo. È stato imbarazzante: 80 anni dopo i fatti ancora l’Italia democratica e repubblicana non è in grado di ammettere che l’esercito fascista, in nome di un regime monarchico e dittatoriale, ha commesso quel crimine (come molti altri). Mi pare incredibile, ma anche segno dell’incapacità di un’intera classe politica di capire che queste cerimonie simboliche hanno un peso sulla società, che non condannare mai una volta l’ideologia fascista fa sì che quelli che a essa fanno riferimento possano presentarsi come politici credibili e non pericolosi, mettendo invece in serio pericolo la democrazia.»
Nei suoi libri, libri scritti con il piglio dello storico e l’uso lucido delle fonti, lei spesso ha smontato l’idea dominante del sempreverde “Italiani, brava gente”. Sappiamo bene che è una narrazione distorta, che aiuta a tacitare i sensi di colpa nazionali ma non a fare il necessario esame collettivo di coscienza…
«Gli italiani non sono né più buoni, né più cattivi di altri popoli, com’è ovvio. Semplicemente, in certe circostanze qualunque popolo e quindi qualunque esercito può commettere crimini terribili. A noi è capitato durante il ventennio fascista, quando la società era dominata da un’ideologia che considerava valori la brutalità, la prepotenza, l’umiliazione del forte sul debole. Se non vogliamo “essere condannati a rivivere quella storia”, come diceva Primo Levi, dobbiamo esserne consapevoli. Una consapevolezza che purtroppo in Italia non c’è.»
So che le capita spesso di visitare i Balcani e persino di accompagnare scolaresche su luoghi confinanti con l’Italia che hanno visto il dipanarsi di violenze italiane ai danni delle popolazioni locali prima e durante la Seconda guerra. Che atteggiamento ha quella gente verso noi italiani?
«Positivo! Sembrerà incredibile, ma quei popoli non portano rancore verso l’Italia e gli italiani, semplicemente perché la Jugoslavia socialista di Tito ha sempre promosso l’idea che i crimini commessi durante la guerra non fossero da attribuire al popolo italiano ma all’ideologia fascista che aveva spinto i nostri soldati a commetterli. La dimostrazione stava nel fatto che, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, decine di migliaia di italiani avevano scelto di combattere nella resistenza jugoslava contro il nazismo. Una storia da noi del tutto sconosciuta, peraltro.»
Qualcuno da noi, soprattutto la Lega, vorrebbe un ritorno della leva obbligatoria. Cosa ne pensa per un un paese che non si è certo distinto per valentia militare (guerre sì, ma tutte perse o, comunque, vinte perché spalleggiate dalla macchina bellica nazista)?
«L’esercito di leva è il frutto di una logica in sé democratica, non a caso nasce sostanzialmente nella Francia di fine Settecento per difendere la Rivoluzione dai nemici esterni (e interni). Oggi, data la tecnologia esistente, è uno strumento del tutto inutile. Lo scopo della Lega e di chi ne propone la re-introduzione non è dotare l’Italia di armi di difesa (di cui comunque non abbiamo affatto bisogno), ma militarizzare la società, imporre un controllo propagandistico sui giovani, insegnargli a sottostare al potere e alla gerarchia. Intenti, tanto per cambiare, antidemocratici: non difendere la patria da una improbabile invasione ma insegnare a credere, obbedire e combattere.»
Con quale frequenza le capita di dover affrontare atteggiamenti bellicosi e aggressivi per aver espresso il suo punto di vista?
«Ogni giorno a febbraio e saltuariamente il resto dell’anno. Tra minacce, denunce (anche da parte di politici di primo piano), tentativi di censura, interrogazioni parlamentari, picchetti di protesta, striscioni e manifesti infamanti e minacciosi… insomma, dovrei passare l’intero mese chiuso in casa, e non basterebbe comunque. A quanto pare sono stato molto citato pure nella chat dei dirigenti di Fratelli d’Italia, di cui si parla tanto in questi giorni. Naturalmente sono tutte accuse puramente ideologiche: nessuno muove critiche nel merito del mio lavoro, semplicemente si chiede che mi venga impedito di farlo. Per questo si tratta di attacchi che non ledono solo la mia persona, ma la libertà di parola, di ricerca e di dissenso che tutti dovremmo coltivare, in un paese democratico.»
Lei dice che la Costituzione della Repubblica Italiana è figlia della sconfitta del Fascismo. Alla luce di quanto sta succedendo oggi nel mondo – e, per restare alla contemporaneità, alla “kermesse dei Patrioti” di Madrid – cosa si sente di dire?
«A loro preferirei non parlare. Non perché “coi fascisti non si parla”, ma perché non hanno alcuna intenzione di ascoltare. Molte democrazie occidentali, tra cui la nostra, stanno subendo una mutazione in senso autoritario. La cosa è preoccupante, soprattutto per chi ci vive e si è sempre considerato dalla parte “giusta” del mondo. Siamo abituati a pensare a una netta separazione fra le nostre democrazie e le “loro” dittature. Peccato che fra i “nostri” ci siano sempre stati anche governi addirittura assolutistici (come l’Arabia Saudita, ad esempio) o regimi dittatoriali imposti da “noi” (ad esempio in Sudamerica). Oggi è tutto ancora più chiaro: quando le elezioni democratiche vengono invalidate se non vince un candidato favorevole a “noi” (come è successo di recente in Romania) o quando governi “democratici” ignorano o addirittura considerano propri nemici istituzioni internazionali come la corte penale internazionale o l’ONU, allora siamo davvero sicuri di essere ancora e sempre “noi” dalla parte della ragione?»
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