Brassaï, l’occhio su Parigi: nel suo sguardo sogni, paure e specchi indiscreti del grande teatro della vita
Gyula Halász aveva tre anni quando lasciò la Transilvania con la famiglia e arrivò a Parigi; la vita e la guerra lo portarono a Budapest e a Berlino, dove studiò Belle Arti, scolpì, disegnò, scrisse. Ma la Ville Lumière, che lo aveva adottato da bambino, lo richiamò a sé e negli anni Venti lo consacrò fotografo. Per il mondo fu Brassaï [1899 – 1984], nome d’arte che porta impresse le origini a Brasov; irriducibile nottambulo, divenne uno dei maggiori esponenti dell’“umanesimo” francese e uno dei primi sperimentatori della fotografia in assenza di luce. Parigi si spogliò davanti al suo obbiettivo, per lui fu diva, divina, prostituta; al suo “occhio vivo” – come Henry Miller ne definì l’insaziabile curiosità – non sfuggirono i volti, i viali, i monumenti, i graffiti di strada così primordiali. Immortalò i sogni e le paure di quella capitale seducente che con il suo canto di sirena non finirà mai di rapire gli innamorati del bello, dell’arte, dei piaceri effimeri.
Lo scatto-guida scelto dai curatori Philippe Ribeyrolles (il nipote del maestro) e Barbara Guidi per la mostra Brassaï. L’occhio di Parigi (al Museo Civico di Bassano del Grappa fino al 21 aprile 2025 per chi avesse perso la tappa milanese a Palazzo Reale] è la celebre Coppia di amanti in un piccolo caffè in Place d’Italie: era il 1932 e chissà se quei due innamorati hanno passato la vita insieme o solo una notte. Durante le sue flâneries notturne Brassaï fu ladro di baci, raccontati attraverso specchi indiscreti che riflettono il gioco della seduzione e la bellezza di una donna nuova, la sigaretta tra le dita, le unghie laccate, il bicchierino sul tavolo.
Arde Parigi nell’oscurità sotto lo sguardo annoiato della Chimera del diavolo di Notre-Dame, la Voigtländer Bergheil è immobile sul treppiede: il tempo di fumare una Gauloise e la città diventa eterna su quella lastra di vetro. Ci sediamo al Bar de la Lune di Montmartre al tavolo con la pittoresca Môme Bijou, che maschera gli anni e gli stenti sotto fili di perle e strati di rossetto. Artista o prostituta, forse entrambe, è avvolta in un collo di pelliccia e in abiti logori come la sua vita; negli occhi porta tutta la nostalgia della Belle Époque naufragata per sempre.
Quella notte Brassaï le scattò tre fotografie, lucide e rassegnate, forti e malinconiche, per non incontrarla mai più. Jack Dawson (Leonardo di Caprio) la fece salire sul Titanic di James Cameron, musa inconsapevole nel suo album di disegni: “Era solita sedersi a questo bar ogni sera indossando tutti i gioielli che possedeva, aspettando il suo amore perduto”. E perdute sono le anime delle creature della notte che le hanno vendute al diavolo; Brassaï raccoglie le storie di personaggi che emergono per un istante dal buio che li protegge, prima di farvi ritorno per sempre. La notte non mostra ma suggerisce una Parigi che culla, turba, sorprende, avvolta nella nebbia o bagnata dalla pioggia: la luce materica dei lampioni e dei fari, delle insegne luminose, allunga le ombre e le riveste di irrisolto.
Brassaï passò in un battito di ciglia dai quartieri degli operai all’alta società; indugiò sulle rouches nere dell’abito d’alta moda, s’insinuò nei sogni di mondanità delle donne parigine impigliati nel velo di un guanto nero; al gala da Maxim’s il grande specchio nouveau sembra un enorme frutto proibito che fagocita i vizi dell’élite degli anni Cinquanta. I suoi scatti, ormai liberi da ogni dovere documentario, spogliano la vita dalle convenzioni e riportano la quotidianità alla meraviglia; scorre davanti agli occhi di Brassaï il grande teatro della vita senza distinzioni, tutto è degno di essere osservato, che siano gocce di rugiada, una patata che germoglia o un biglietto del metrò accartocciato. In bilico tra Surrealismo e surreale, per la rivista Minotaure condivise il fermento artistico degli anni Trenta: Picasso, Dalì, Matisse, Giacometti, Prévert sono solo alcuni degli artisti e degli scrittori che si sono messi in gioco e a nudo davanti al suo obbiettivo, ritratto corale di un’epoca irripetibile.
Nella camera oscura di Brassaï viene a galla il suo poema d’amore dedicato a una Parigi che avremmo voluto vivere e invece “abitiamo” attraverso i suoi occhi, “poesia del tempo” che scende nell’anima.
***
Tutte le foto in questa pagina sono pubblicate su gentile concessione dell’ufficio stampa
L'articolo Brassaï, l’occhio su Parigi: nel suo sguardo sogni, paure e specchi indiscreti del grande teatro della vita proviene da Il Fatto Quotidiano.