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Spiegazione filosofica della sinistra perdente: senza proletari si è fatta corrodere dai desideri

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La sinistra (usiamo qui questa parola in senso molto lato, per non escludere nessuno) è perdente a ogni elezione in ogni canto del globo. Se però un marziano calasse per la prima volta in Italia, e anche negli USA, si farebbe l’idea di trovarsi fra intere totalitarie popolazioni di sinistra, con libri di sinistra, tv di sinistra, film di sinistra, canzonette di sinistra, prediche di sinistra, libri di sinistra, testi scolastici di sinistra, temi in classe di sinistra, e linguaggio di sinistra in ogni occasione; tutto di sinistra, eccetto i voti. Come mai, tale ircocervo politico? Occorre una spiegazione filosofica.

La sinistra nacque con l’industria, quindi già nei primi decenni del Settecento. L’industria aveva bisogno di braccia, e, secondo la brutale e ignobile “legge bronzea dei salari”, di pagarle il meno possibile, donde l’accumulo di guadagno nelle tasche dei capitalisti; e l’esigenza di reinvestirlo, trovando altre braccia da sfruttare, sempre con pagamento men che minimo. Tale fenomeno sociale venne preso in esame da alcuni pensatori inglesi e francesi, che elaborarono varie forme di socialismo e speranze di soluzioni: Babeuf, Blanqui, Fourier, Owen, Proudhon, Saint-Simon…

Carlo Marx (1818-83) li tacciò tutti di “socialismo utopistico”, e dichiarò le sue tesi “socialismo scientifico”. Si trattava, palesemente, di una trasformazione della filosofia di Hegel da idealismo a materialismo, sia pure “dialettico”. Per farla breve, Marx sostiene che lo sfruttamento delle braccia continuerà all’infinito, con accumulo del “plusvalore” in una classe di capitalisti sempre più ricca, però sempre meno numerosa; fino a un’implosione del capitalismo, che favorirà, secondo lui, la rivoluzione dei proletari.

E qui urge una precisazione che, con tutta evidenza, sfugge alla sinistra (in senso qui non solo lato ma latissimo!) del XXI secolo: il concetto di proletario non è affatto uguale a quello di povero, emarginato, disperato, “ultimo”, eccetera; al contrario, il proletario è una persona di solida collocazione sociale operaia, e ferma e solida psicologia ed etica, e che “prende coscienza” razionalmente della propria condizione; si organizza in un partito disciplinato di proletari; attende accortamente il momento; compie la rivoluzione, che non è certo sommossa di scapestrati; impone la “dittatura del proletariato”, con la proprietà collettiva dei mezzi di produzione del reddito: ed ecco il comunismo. Il tutto, in Marx, finisce poi in utopia alla Rousseau con promessa di felicità eterna; e, nella storia europea, è finito con il fallimento dell’Unione Sovietica, ma qui ciò non c’interessa.

È qui importante chiarire, sempre stando a Marx, la netta differenza, anzi opposizione, tra proletariato e sottoproletariato (Lumpenproletariat). Il sottoproletario non è solamente povero perché in pessime condizioni finanziarie: è, soprattutto, un tipologia antropologica degradata, in cui si possono trovare anche ricchi impoveriti e poveri arricchiti, e che comunque non costituisce una classe sociale ma, per usare un’espressione del De Sivo, “mischianza del peggio di tutti gli ordini sociali”: e non mi soffermo sui vizi, vizietti e cose simili. E, per tale situazione di dissociazione morale e mentale, il sottoproletario è disposto a qualsiasi cosa per trascinare la sua esistenza precaria e provvisoria, e sporadicamente godere di qualcosa. Il sottoproletario, insiste Marx, è perciò il peggiore nemico del proletario.

La sinistra del XXI secolo non deve avere esatta conoscenza di Marx, per non dire che lo ignora. E siccome oggi proletari propriamente detti non ce sono più, anzi non c’è nemmeno l’industria in senso classico, e perciò non servono braccia, quindi non si trovano proletari cui la sinistra possa parlare, ecco che alle sinistre europee e statunitensi sono rimasti unicamente i sottoproletari: indigeni, o anche stranieri che siano. Ma i sottoproletari, come sopra dimostrato, non sono una classe, tanto meno un’organizzazione, e non si possono, quindi, comportare e trattare come se lo fossero. Se votano, votano come pare a ogni singolo di loro, e con atteggiamento singolo e mutevole; e se qualche volta il sottoproletario finge di essere di sinistra perché ancora gli pare ancora di moda, poi, nelle urne, tanti saluti.

E come mai la cultura di sinistra è così ancora dilagante? Beh, è altrettanto palese l’inefficacia del gramscismo, se il fanciullo che svolge (o copia quello della nonna?) un tema di sinistra, poi voterà altrimenti, e spesso a destra; e lo stesso fa la professoressa che ha assegnato il tema di sinistra, se no pare brutto con i colleghi. Ma poi i numeri sono numeri!   

La sinistra del XXI secolo, non avendo dunque proletari cui proporre (sia pure con varianti) la rivoluzione, pensa di aver trovato la soluzione promettendo ai sottoproletari i diritti, tutti i diritti, ogni genere di diritti, ogni fantasia di diritti e di comodi e di felicità: è, infatti, evidente che ai diritti non c’è mai fine, anche quando, come inevitabilmente succede, i diritti diventano sogni, utopie, alla fine banalissimi capricci, sorretti da teorie cervellotiche e campate in aria. Ed è poi altrettanto evidente che i diritti millantati non sono di massa, anzi, ove mai qualche rara volta si ottengano, toccano a pochissimi; e, la cosa più importante, non interessano a quasi nessuno nemmeno dei sottoproletari, tranne rarissimi privilegiati… che, essendo privilegiati, se li piglierebbero lo stesso. Però non basta, e, insegna il Vico, “vogliono peccare con l’autorità delle leggi”, ed ecco le promesse della sinistra salottiera, e la pretesa che il privilegio divenga regola: operazione fallita.

Un corollario: quelli che oggi la sinistra spaccia per diritti degli emarginati, la dittatura del proletariato li considererebbe, e giustamente, propri… della corrotta borghesia! È messa male, dunque la sinistra. C’è una soluzione? E che ne so, e comunque, se l’avessi, non glielo direi: mica sono di sinistra, io…

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