“Non esco di casa da mesi, ordino la spesa e i farmaci a domicilio. Spendo i miei risparmi comprando vestiti che non indosso”: lo sfogo dello scrittore Jonathan Bazzi
“Da alcuni mesi evito di uscire di casa. Senza che lo decida davvero, le giornate iniziano, finiscono ed è successo di nuovo”. Comincia così il racconto dello scrittore Jonathan Bazzi, autore di Febbre (Fandango, 2019), opera finalista al Premio Strega 2020, che, sul Corriere della Sera, condivide una lunga riflessione su quello che lui stesso definisce il suo “isolamento digitalmente affollato”: “Lavoro a casa ormai da anni, ma prima andavo al supermercato, frequentavo le lezioni di yoga e di altre discipline che mi incuriosivano. Avevo un ritrovo fisso con gli amici per l’aperitivo, nel fine settimana tornavo a pranzo da mia madre. Ora ordino la spesa, e persino i farmaci, a domicilio, seguo corsi online, faccio i saluti al sole incastrato tra il tavolo e il divano, rimando appuntamenti e uscite fino a dimenticarmene, interagisco con la mia famiglia d’origine nel gruppo WhatsApp, nonostante ci separino venti minuti di automobile”, sottolinea lo scrittore.
Questa sua condizione, però, non è intesa necessariamente come un sinonimo di infelicità: “Non posso dire di esserne scontento: per un verso, è esattamente quello che voglio”, evidenzia, ancora, Bazzi. E sarebbe proprio questo desiderio di isolamento, secondo lo scrittore, a far perdere di vista, forse, l’importanza della nostra salute mentale: “Non ci rendiamo conto dell’influenza che la solitudine autoimposta, desiderata, ha sulla nostra vulnerabilità. Molte delle persone che ho intorno sembrano orientate dallo stesso obiettivo: stare il più possibile ritirate, protette nel santuario privato di casa propria, col partner, magari il cane o il gatto, in una specie di cura di sé a oltranza e senza obiettivi precisi. Una sorta di estensione della sindrome della capanna di cui si parlava negli anni del Covid”, spiega Jonathan. Che poi aggiunge: “Su TikTok va di moda celebrare quando qualcuno con cui hai un appuntamento annulla l’incontro: è una gioia che capisco benissimo. E meno usciamo, meno siamo disposti a uscire. I nostri desideri, però, non sono sempre lungimiranti: tutto questo, a lungo andare, ci rende più forti o ci indebolisce?”.
Una delle cause di questo isolamento voluto e desiderato, secondo lo scrittore, sarebbe lo smartphone e le conseguenze che potrebbe avere un suo utilizzo costante nella vita di tutti i giorni: “Gli esperti dicono che la comunicazione digitale inibisce la ricerca di contatti diretti: la voglia di vedersi dal vivo, nell’iperstimolazione della messaggistica, retrocede sempre più sullo sfondo. Smettiamo di sentirne il bisogno”, ricorda Bazzi. Che, come esempio, ricorre alla sua personale esperienza digitale: “La sezione apposita del telefono mi informa che ho una media giornaliera di utilizzo pari a 10 ore e 24 minuti: il 17% in meno rispetto alla scorsa settimana (ci sto lavorando). Sullo smartphone faccio molte cose, compreso sentire amici e conoscenti. Dalle sei del mattino a mezzanotte, in un flusso ininterrotto di link, video, sticker e meme”. Ed è proprio per questo che “se vogliamo passare così tanto tempo da soli è perché, oggi, non ci sentiamo mai davvero tali: lo sciame social ci segue dappertutto, i contatti sono intensi, sebbene confinati allo schermo”. Altrettanto mediate sono anche le interazioni con le altre persone, che, a questo punto, assumono la forma di “spettri che ci attivano o intristiscono, esaltano o inquietano, ma sempre in modo controllato. La presenza altrui è resa, in teoria, meno ingombrante dall’incorporeità: la separazione dovrebbe allentare l’ansia da prestazione sociale – fino a passare intere giornate in pigiama, il cosiddetto goblin mode –, e permette anche di concentrarsi su sé stessi. Casa, comfort e cura di sé compongono una costellazione ricorrente in questo isolamento digitalmente affollato”, spiega Jonathan. A venire a mancare, piuttosto, è il desiderio di incontrare, fisicamente, l’altra persona: “Mentalizziamo a tal puntoil contatto che cerchiamo di procrastinarlo il più possibile, o almeno recintarlo in spazi prevedibili”.
Lo spazio casalingo, dunque, diventa una sorta di scudo protettivo per difendersi dalle inquietudini provenienti dall’esterno: “In un mondo percepito come ostile, concentriamo le nostre vite nell’aggiustamento domestico. Tanto a casa ci arriva tutto, possiamo fare tutto: mangiare, curarci, studiare, conquistare diplomi e attestati, fare shopping e fare attivismo, appagare la libido o guadagnare con quella altrui, seguire in video-call maestri spirituali, recitare mantra con persone da tutto il mondo. Istigato dall’algoritmo, che ormai conosce tutti i miei punti deboli, spendo i miei risparmi comprando vestiti che non indosso, dato che evito le occasioni in cui potrei metterli. A tanti amici accade lo stesso: tanto poi ci si rivende tutto sull’app per l’usato. L’economia moderna ha sempre meno bisogno delle nostre interazioni dal vivo: ci invita all’introversione, qualcuno dice all’agorafobia”. Anche lo stesso attaccamento alle nostre case, “sempre più piccole e costose, ha forse un legame con questa segregazione volontaria che si illude di poter raggiungere la felicità individuale lasciando che il fuori – troppo grande, troppo complicato – resti com’è?”, si chiede ancora lo scrittore.
A questo isolamento, però, secondo Bazzi, bisogna rispondere con una reazione: “Se i comfort deformano la nostra prospettiva, c’è bisogno di uno scatto, critico e sentimentale, che elevi il nostro desiderio più in alto della sola autoprotezione. Le case di cui abbiamo parlato finora sono anche metaforiche: viviamo in un tempo a bassissimo tasso di creatività, sempre meno persone sentono di potersi permettere di lasciare le stanze note per inoltrarsi verso significati e storie ancora da scoprire”. La sensazione dello scrittore, però, è che “siamo molto più di questo”, ma rischiamo di finire “talmente sulla difensiva, e appartati, da contrarre la tana fino a renderla la tagliola nella quale diventiamo la più facile delle prede”, conclude Bazzi.
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