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Una difesa comune Ue? Dalle mie parti si parla ancora di esercito ‘piemontese’…

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di Fabio Selleri

La costituzione di un esercito comune europeo, nelle condizioni attuali, solleverebbe forti preoccupazioni per il futuro delle democrazie nel nostro Continente. L’assoggettamento delle gerarchie militari al potere politico, rappresentato nel nostro ordinamento dal Ministero della Difesa, ne uscirebbe fortemente indebolito. Così come il controllo da parte degli elettori.

L’Unione Europea soffre di gravi deficit di rappresentanza democratica e il confronto con le istituzioni nazionali è impietoso: un parlamentare Ue ogni 670.000 abitanti, contro uno ogni 151.000 in Italia. La distanza geografica delle sedi istituzionali europee non facilita in alcun modo il rapporto con i territori. Il percorso parlamentare di sfiducia all’esecutivo Ue (“mozione di censura”) richiede un quorum molto più elevato rispetto alla normativa nazionale e nei fatti non è mai stato messo in atto. Mi pongo, quindi, alcune domande da semplice cittadino europeo, non esperto di diritto comunitario, ma legittimamente preoccupato.

La Costituzione europea, al di là delle generiche enunciazioni di principio a favore della pace, contiene uno specifico richiamo al ripudio della guerra simile al nostro articolo 11? L’articolo I-43 della Costituzione europea, aprendo alla possibilità di interventi militari preventivi nel territorio degli Stati membri, offre le stesse garanzie?

In sintesi: al di là di tutte le considerazioni ragionieristiche sulla maggiore efficienza di una difesa comune, le decisioni prese rappresenterebbero veramente il volere dei cittadini europei?

Se la risposta alle domande che precedono è “no”, allora queste forze armate unitarie verrebbero inevitabilmente viste come qualcosa di estraneo, espressione di una élite lontana. Nelle nostre regioni meridionali le parole “Esercito piemontese” e “Savoia” ancora oggi evocano in molti qualcosa di ben diverso da una forza di liberazione. Il processo di avvicinamento fra i popoli europei deve (o avrebbe dovuto) svolgersi secondo priorità molto diverse da quelle a cui stiamo assistendo.

In primo luogo sarebbe stato necessario lavorare ad una unione sociale, favorendo le pari opportunità, un’equa distribuzione dei redditi ed un’elevata qualità di scuola e sanità pubbliche in tutti i Paesi. Altiero Spinelli, nel suo Manifesto di Ventotene del 1941, considerato documento fondativo dell’Unione, parlava di lotta ai monopoli, nazionalizzazioni, scuola pubblica che consenta a tutti i giovani le stesse possibilità, “provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti un tenore di vita decente”, liberazione delle classi lavoratrici. Purtroppo le cose sono andate in un’altra direzione. Occorre verificare se il testo a disposizione di von der Leyen e Lagarde è stato tradotto correttamente.

In secondo luogo, “a pancia piena”, si sarebbe dovuto procedere ad un’unione culturale, alla creazione di un sentire comune che porti ogni cittadino europeo a considerare la storia, gli artisti e gli intellettuali degli altri Paesi come un proprio patrimonio. Solo a queste condizioni avremmo dovuto pensare alla creazione di quelle strutture finanziarie e monetarie strumentali alla realizzazione e gestione delle fasi precedenti e che invece si sono trasformate in un cappio per alcuni Paesi a vantaggio di altri ed in una straordinaria occasione per gli interessi privati.

E come completamento del processo, un esercito europeo avrebbe potuto costituire uno scudo a difesa di una comunità che oggi invece non esiste ancora. Ma, come sappiamo, la costruzione dell’Unione europea è iniziata dal tetto.

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