‘Una lingua è tutto, o non è’: la rivoluzione di Alessandro Manzoni a 240 anni dalla nascita
In una lettera del febbraio 1847 all’accademico piemontese Giacinto Carena, esperto di nomenclatura scientifica, Alessandro Manzoni (Milano 1785-1873) scriveva senza esitazione: “Una lingua è un tutto, o non è”.
La riflessione linguistica lo impegnava già fin dalla giovinezza, trascorsa tra Milano, la casa paterna di Caleotto, presso Lecco, e Parigi, dove la madre Giulia Beccaria si trasferisce insieme al conte Carlo Imbonati dopo la separazione da Pietro Manzoni. È proprio il confronto col francese – una lingua parlata e compresa da tutti, che si sente su tutte le scene teatrali – a far sì che l’italiano gli appaia, almeno fin dalla lettera all’amico Claude Fauriel del febbraio 1806, “quasi lingua morta”: una lingua serve, deve servire, in tutte le contingenze della vita, comprese quelle più quotidiane e prosaiche; e una lingua come l’italiano – che esiste solo nella realtà scritta ma non anche in quella parlata, dove si presenta frammentata in una pluralità di parlate regionali – non è capace di servire a questo scopo.
Ma è solo dall’aprile 1821 – quando Manzoni comincia a scrivere la prima redazione di quello che ad oggi è il romanzo più famoso della nostra letteratura, intitolata per convenzione Fermo e Lucia – che il problema di una lingua italiana “per tutti” e “per tutto” gli si pone con la massima urgenza. La trama è già quella che tutti conosciamo: la storia dell’amore tra due filatori di seta, Fermo (che poi si chiamerà Renzo) e Lucia, il cui matrimonio viene inizialmente impedito da un signorotto locale (don Rodrigo) minacciando un curato pusillanime (don Abbondio), e che si potrà celebrare solo quando sulla scena d’inizio (un paese vicino a Lecco) e sull’intero territorio lombardo saranno trascorsi gli anni della carestia, della rivolta, della peste in seguito alla guerra dei Trent’anni.
Altrettanto non può dirsi per la lingua: quella del Fermo e Lucia è infatti, per ammissione stessa dell’autore, ancora un “composto indigesto” di lombardismi, francesismi e di frasi attinte per via di imitazione ora da una ora da un’altra varietà linguistica. Manzoni non ha dubbi: questa prima redazione del romanzo è “scri[tta] male”; e, sotto il profilo linguistico, non lo soddisfa nemmeno la prima edizione, già col titolo I promessi sposi, del 1825-27 (la cosiddetta Ventisettana).
Proprio nell’estate del 1827 lo scrittore si convince che un possibile modello di lingua “per tutti” e “per tutto” sia il fiorentino dell’uso vivo dei colti, e “risciacqua i panni in Arno” (l’espressione, divenuta proverbiale, non è sua, ma la metafora sì): prima col soggiorno a Firenze tra agosto e novembre di quell’anno; poi, tornato a Milano, con l’aiuto della giovane governante fiorentina Emilia Luti – si conservano ancora i bigliettini coi quali Manzoni le si rivolgeva per sapere quale forma di una parola o quale di due parole corrispondesse più esattamente all’uso dei fiorentini. Il risultato è la veste linguistica della seconda edizione del romanzo (1840-42, la cosiddetta Quarantana), quella che leggiamo ancora oggi: depurata dei lombardismi – “martorello” , ad esempio, diventa “sempliciotto”; svecchiata nella sua componente letteraria – il pronome soggetto di terza persona passa da “egli” a “lui”, più colloquiale, e la prima persona dell’imperfetto indicativo esce in -o (“avevo”) anziché in -a (“aveva”, forma arcaica ma ancora usuale nella lingua scritta di inizio Ottocento); e attenta a riprodurre il parlato anche nelle sue manifestazioni agrammaticali – come nel celebre anacoluto della monaca di Monza: “noi altre monache, ci piace di sentir le storie per minuto” (capitolo 9).
La pubblicazione della Quarantana segna una tappa fondamentale nella riflessione linguistica di Manzoni e nell’elaborazione di una lingua media comune che sia voce democratica dell’Italia che si avvia sulla strada dell’unità nazionale: non è facile stabilire il momento nel quale il toscano fu adottato senza riserve come sola e vera lingua degli italiani, ma certo non è un caso che I promessi sposi siano entrati nei programmi scolastici subito all’indomani dell’unità, nel 1870.
Oggi, a distanza di quasi due secoli, il romanzo di Renzo e Lucia dimostra una capacità di persistenza degna di un “classico”: è il romanzo che tutti noi leggiamo a scuola, almeno per estratti; è l’unico, insieme alla Commedia, ad aver avuto una riduzione in forma di fumetto – I promessi paperi, scritti da Edoardo Segantini e disegnati da Giulio Chierchini nel 1976; è stato oggetto di numerosi adattamenti per il grande e piccolo schermo, oltre che per il teatro; perfino Emilia Luti è diventata la protagonista del romanzo di Emanuela Fontana, La correttrice, pubblicato l’anno scorso – giusto in tempo per festeggiare i 240 anni dalla nascita dello scrittore. Come pure l’anno scorso è uscita l’edizione genetica della Quarantana curata da Barbara Colli, che ricostruisce e illustra, a vantaggio degli studiosi e non solo, l’intreccio di correzioni, riscritture, ma anche incertezze e ripensamenti dell’autore, che hanno portato ai Promessi sposi come li conosciamo noi.
Insomma, viene un po’ da chiedersi come sarebbero andate le cose senza Manzoni… quel che è certo è che, se lui aspirava a una lingua “per tutti” e “per tutto”, il suo romanzo è ancora oggi un libro per tutti, il libro di tutti.
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