Hamas e la fame come strumento di guerra mediatica
Nella lunga e drammatica crisi che colpisce la Striscia di Gaza, una delle armi più insidiose non esplode, non ferisce con schegge né si lancia da un drone o con un missile. È la fame. E, soprattutto, è la sua narrazione. Hamas ha trasformato l’inedia della popolazione civile in uno strumento di propaganda capace di valicare confini, condizionare governi occidentali e orientare il dibattito globale. In una guerra combattuta anche sul piano dell’immagine, «la carestia» diventa veicolo per delegittimare Israele, alimentare pressioni internazionali e consolidare il controllo interno del movimento sulla Striscia. Dall’inizio del conflitto scoppiato dopo le stragi del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele, Hamas ha saputo mettere in campo una strategia comunicativa centrata su un’immagine potente e difficilmente contrastabile: quella di un popolo affamato, isolato, punito da un nemico crudele. Bambini denutriti, madri disperate, convogli di aiuti bloccati al confine: questi gli elementi cardine della campagna mediatica del gruppo islamista. La narrazione, rilanciata da reti satellitari panarabe come Al Jazeera e amplificata da social media e ONG internazionale, dai media occidentali oltreché da personalità politiche, punta a generare indignazione nei confronti di Israele e a presentare Hamas non come parte in causa, ma come unica barriera contro il collasso umanitario.
Qui il messaggio è chiaro: «Gaza muore di fame perché il mondo, e Israele in particolare, ha deciso così». Il fatto che Hamas rubi e controlli direttamente la maggior parte degli aiuti umanitari e li redistribuisca secondo logiche clientelari o militari, viene accuratamente rimosso dalla narrazione. La strategia si è fatta ancora più spietata con l’utilizzo diretto della fame come elemento scenico nelle immagini degli ostaggi israeliani detenuti nella rete sotterranea di tunnel. In un video recentemente diffuso da Hamas, l’ostaggio Evyatar David è scheletrico, con le ossa visibili sotto la pelle, gli occhi infossati, appena in grado di parlare. È una scena pensata per scioccare, per evocare carestie africane o campi di prigionia. Ed è una rappresentazione abilmente costruita. Secondo Elisa Garfagna che studia la propaganda jihadista sul web si tratta di una strategia pianificata da esperti di comunicazione: «Nella narrazione mediatica, la fame diventa un’arma psicologica potente, che evoca persino l’orrore della Shoah, trasformandosi poi in un ricatto globale. Le immagini di ostaggi scheletrici, come Evyatar David, creano un’analogia visiva con le vittime dei campi di concentramento nazisti, invertendo abilmente i ruoli di vittima e carnefice. Questa strategia comunica un messaggio chiaro: le azioni di Israele sono paragonabili a crimini storici, generando indignazione e pressione internazionale. Il piano sequenza di immagini, che parte dalla carestia diffusa a Gaza e culmina con la sofferenza individuale dell’ostaggio, è una tecnica di comunicazione sofisticata. Questa progressione visiva consolida la narrazione distorta, trasformando la crisi umanitaria in un’accusa diretta e personale contro Israele e presentando Hamas non come generatore del conflitto, ma come difensore di un popolo sotto assedio».
In realtà, Hamas non accenna ad alcuna responsabilità per le condizioni degli ostaggi: non ammette né nega l’intenzionalità della privazione di cibo. Ma è tutto chiaro – e propagandisticamente potente: «Questo è ciò che succede quando Israele rifiuta le trattative». È un’arma di pressione psicologica e diplomatica, calibrata per colpire l’opinione pubblica israeliana e i governi occidentali che come visto con il riconoscimento della Palestina sono caduti nella trappola.Nel corso degli ultimi mesi, numerosi rapporti – tra cui documenti delle Nazioni Unite e testimonianze di funzionari umanitari – hanno denunciato il sequestro sistematico di camion carichi di beni di prima necessità da parte delle milizie legate ad Hamas. Molti di questi convogli non arrivano mai a destinazione. Altri vengono intercettati e i materiali venduti sul mercato nero o utilizzati per scopi militari. Nonostante ciò, la narrazione pubblica diffusa dal gruppo islamista parla esclusivamente di un «assedio israeliano» e di un’occupazione che affama deliberatamente il popolo palestinese. È una mezza verità che, ripetuta con forza e immagini potenti, si trasforma in certezza nel dibattito globale.La gestione degli aiuti da parte di Hamas non è solo uno strumento militare o economico, ma anche politico: chi riceve beni ha spesso legami con l’organizzazione; chi è escluso, viene punito. La fame diventa così un meccanismo di controllo sociale interno oltre che una micidiale leva verso l’esterno.
Hamas sa perfettamente come sfruttare le debolezze dell’informazione globale. Le immagini di bambini affamati ( spesso create con l’intelligenza artificiale oppure utilizzando fotografie scattate in altri conflitti, ospedali senza medicine e sfollati disperati sono elementi che colpiscono l’opinione pubblica molto più di qualsiasi spiegazione geopolitica o denuncia tecnica. I media occidentali, spesso privi di accesso diretto al territorio o costretti a filtrare le notizie attraverso fonti locali, finiscono per adottare inconsapevolmente la narrazione costruita da Hamas. Molti organi di stampa – anche autorevoli – adottano nei confronti di Israele una severità che si trasforma in pregiudizio sistemico, mentre riservano a Hamas un trattamento indulgente, quando non complice. Le parole pesano: si evita di definire Hamas come gruppo terroristico, si preferisce parlare di «militanti» o «resistenza armata». Le esecuzioni sommarie di presunti collaborazionisti, la repressione violenta del dissenso interno, il furto degli aiuti umanitari e l’indottrinamento forzato dei minori – raramente trovano spazio nelle cronache. Lo stesso vale per le trasmissioni televisive che vedono la continua presenza di sedicenti esperti che diffondono la propaganda di Hamas e qui la domanda è: Lo fanno gratis oppure c’è qualcuno che paga?
Anche molte ONG internazionali, pur impegnate in buona fede nell’assistenza umanitaria, diffondono comunicati e rapporti che fotografano solo gli effetti del disastro, senza poterne indagare le cause. È un terreno fertile per la strategia comunicativa del gruppo, che riesce così a evitare la responsabilità diretta e a rafforzare la propria posizione politica. A tutto questo si aggiunge una componente ideologica e religiosa. Nei proclami ufficiali, i portavoce di Hamas non esitano a presentare la fame come una forma di resistenza. Soffrire diventa parte del jihad, digiunare non è solo una necessità ma un segno di fede e di dedizione alla causa. In questa narrazione, la popolazione di Gaza diventa martire collettivo: ogni pancia vuota è un’accusa all’occupante, ogni bambino denutrito un’arma contro l’indifferenza del mondo. Tutto questo pero’ non riguarda i capi di Hamas che vivono all’estero (in Qatar o in Turchia), tutti alle prese con evidenti problemi di obesità.
È una retorica che trasforma l’emergenza umanitaria in strumento di consenso: chi resiste alla fame, resiste all’oppressione. Ma è anche un meccanismo perverso che disumanizza le vittime reali, riducendole a comparse in una campagna propagandistica sempre più ampia. Nel conflitto tra Israele e Hamas, la fame non è soltanto una conseguenza della guerra: è diventata una parte integrante della strategia bellica. Non nel senso classico della carestia imposta da un assediante – ma come dispositivo narrativo, arma di propaganda, strumento di pressione. In questo contesto, Hamas ha saputo imporsi come regista abile e spregiudicato di un dramma umanitario che utilizza per guadagnare tempo, influenzare negoziati e cercare legittimazione. L’opinione pubblica internazionale, le istituzioni e i media sono chiamati a interrogarsi su questa dinamica: non per negare la realtà della sofferenza, ma per comprenderne le cause, evitare la strumentalizzazione e garantire che gli aiuti arrivino davvero a chi ne ha bisogno, senza diventare un’altra moneta nel conflitto. Ma su questo chi scrive ha perso ogni speranza.