Carbone, da ministro Calenda annunciò la chiusura delle centrali al 2025. Ora chiede di rinviarla fino al 2038
La chiusura delle centrali nucleari? Da coordinare con l’avvio di nuovi impianti elettronucleari “indicando il 2038 come nuova data per il phase-out”. Mica dettagli. Perché si tratta di un rinvio di 13 anni rispetto a quello previsto nel Piano nazionale integrato energia e clima, otto anni più in là anche rispetto all’ipotesi di posticipare la chiusura al 2030, su cui più volte si è parlato negli ultimi mesi. Fa discutere, soprattutto nei territori coinvolti, l’ordine del giorno firmato da deputati di Azione e Forza Italia collegato al decreto legge ex Ilva, approvato nei giorni scorsi alla Camera, con parere favorevole del Governo. Un testo che impegna l’Esecutivo a modificare il Pniec. E fa discutere non solo per il contenuto, ma anche perché nel 2017 era stato proprio il leader di Azione, Carlo Calenda, come ministro allo Sviluppo economico, ad annunciare l’addio dell’Italia alle centrali a carbone entro il 2025, punto fondamentale della Strategia energetica nazionale italiana. A Brindisi è terremoto.
Cosa prevede il Pniec – Attualmente, infatti, sono quattro le centrali a carbone attive in Italia, anche se con una produzione trascurabile. La quinta, quella di Monfalcone (Gorizia), ha smesso di funzionare già a gennaio 2025. Il Piano nazionale integrato energia e clima prevede poi la chiusura entro il 2025 anche di quelle di Civitavecchia (Torrevaldaliga Nord) e Brindisi (Cerano), entrambe di Enel, mentre spostava il phase-out in Sardegna. Le centrali Sulcis e Fiume Santo, infatti, avrebbero dovuto restare aperte sino al completamento del Tyrrhenian Link, l’elettrodotto che collegherà l’isola al continente, dunque presumibilmente entro il 2028. Proprio nei giorni scorsi, presso il ministero delle Imprese del Made in Italy, si era svolto un primo incontro sulle manifestazioni d’interesse presentate dagli investitori in risposta alla consultazione pubblica (chiusa lo scorso 3 giugno) per la riconversione e la reindustrializzazione dell’area dell’ex centrale di Civitavecchia.
La proposta di Azione e Forza Italia – Nell’ordine del giorno firmato da deputati di Azione (Bonetti, Richetti, Rosato e Benzoni) e Forza Italia (Battilocchio, D’Attis, Tenerini e Squeri) si fa riferimento al fatto che nel 2024, in Germania, 95 terawattora di energia elettrica sono stati generati con centrali a carbone (di cui 71 terawattora a lignite, il combustibile con le più alte emissioni specifiche). In Italia, si legge nel testo, “ne abbiamo generati 3,5” con centrali con emissioni mediamente inferiori. Nel primo semestre 2025 “il rapporto è persino aumentato: 50 terawattora in Germania, 1,5 terawattora in Italia”. Azione e Forza Italia hanno anche ricordato i tempi del phase-out dettati dal Piano nazionale integrato energia, confrontandoli con quelli stabiliti dal governo tedesco (che prevede l’azzeramento entro il 2038) sottolineando che il Pniec, però, “ipotizza che reattori nucleari di nuova costruzione in Italia possano produrre energia elettrica a partire dal 2035”. Insomma, il messaggio è chiaro. Si può allungare la vita delle centrali, in modo da coprire l’arco temporale in cui certamente in Italia non potranno essere pronti impianti nucleari. Sempre supposto che ciò accadrà e avverrà secondo i tempi stabiliti, cosa che sul nucleare normalmente non avviene.
Le parole di Calenda: “Dobbiamo varare il piano rapidamente” – In una nota, Azione spiega che “mantenendo in attività anche solo le centrali a carbone di Civitavecchia e Brindisi, si possono generare 30 terawattora continui, con costi di generazione contenuti e in quindi in grado di ridurre il prezzo di acquisto da parte delle imprese”. E aggiunge: “Le centrali a carbone italiane hanno, peraltro, emissioni di un terzo inferiori a quelle tedesche”. “Abbiamo lavorato con la maggioranza per definire un piano che soddisfi la domanda di energia delle imprese manifatturiere alla metà del costo attuale. Ringrazio la maggioranza per aver accolto il piano, ma ora dobbiamo vararlo rapidamente. Il Paese si sta de-industrializzando” ha commentato Calenda. Nel 2017 le sue parole rispetto al phase-out dal carbone, furono accolte con entusiasmo anche dalle associazioni ambientaliste, che reputavano la scelta “un deciso passo avanti”. In un’intervista a Il Sole 24 Ore, Calenda ha spiegato: “Abbiamo avuto una lunga interlocuzione con il governo e con Fratelli d’Italia per trovare una soluzione al fine di dare alle imprese che in Italia consumano circa 100 TWh di energia all’anno un prezzo che sia sganciato dal prezzo del gas e che sia attorno a 60-70 euro a MWh per avere più competitività”.
La strada spianata dal Governo (e dal ministro Pichetto) – Adesso la palla passa al Governo che, certamente, non farà fatica ad approvare un rinvio. Sono passati pochi mesi da quando, ad aprile, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin lasciava non la strada spalancata. “Confermo la chiusura della produzione, come già previsto nel 2024, ma credo che dobbiamo tenere in stand-by le nostre centrali a carbone” diceva a margine del Forum Confcommercio, rispondendo alle preoccupazioni di Lega, Enel ed Eni. Per il vicepresidente del Consiglio e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini “chiudere le quattro centrali a carbone non è nell’interesse del Paese”. E l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, non si era fatto scappare l’occasione: “Chi faceva il primo della classe sta sopravvivendo con il carbone”. In aula, l’attacco del deputato di Avs, Angelo Bonelli. “Il gruppo di Azione viene qui a proporre un ordine del giorno per posticipare il carbone al 2038. Penso che sia chiaro – ha detto – che c’è una politica energetica che guarda a destra e che costruisce un solco, per quanto ci riguarda, assolutamente invalicabile. Pensare di portare la produzione del carbone al 2038, quindi il phase out, lo ritengo qualcosa di inaccettabile”.
Le reazioni a Brindisi e la replica di D’Attis – Ma cosa ne pensano i territori coinvolti? “La scelta di rinviare al 2038 l’uscita dal carbone è un colpo basso per Brindisi e per tutta la Puglia. Dopo due anni di annunci sulla decarbonizzazione e di promesse di investimenti, il Governo Meloni decide di cancellare con un tratto di penna il percorso tracciato” ha commentato il segretario regionale pugliese del Pd, Domenico De Santis. Ricordando: “Il centrodestra pugliese, che avrebbe dovuto difendere gli interessi del suo territorio, ha scelto di firmare un impegno che condanna Brindisi a restare ostaggio del carbone”. Il partito boccia l’odg, ma lo fanno anche il M5S e l’ex sindaco Riccardo Rossi, capogruppo di Brindisi Bene Comune – Alleanza Verdi Sinistra, che ha annunciato la presentazione di una mozione in consiglio comunale. “Con il rinvio della dismissione della centrale di Brindisi – ha commentato il senatore Mario Turco, vicepresidente del M5S – il governo affossa ogni prospettiva di decarbonizzazione reale, manda in fumo anni di progetti alternativi e sacrifica una città intera sull’altare dell’immobilismo energetico”. La risposta del deputato brindisino di Forza Italia, Mauro D’Attis (tra i firmatari dell’odg), non si è fatta attendere. “L’aver apposto la mia firma su un ordine del giorno proposto da altre forze politiche per aprire la discussione sull’eventuale spostamento del phase out dal carbone, ha un’unica chiave di lettura: esperire ogni strada utile per mettere in sicurezza il Paese sul fronte energetico” ha detto. Per D’Attis è “esattamente ciò che stanno facendo tante altre Nazioni, per esempio la Spagna con il nucleare a cui aveva detto di voler rinunciare, per scongiurare rischi dovuti agli scenari internazionali. Tutto il resto appartiene alle solite speculazioni di carattere politico che certamente non fanno bene a nessuno”. Va detto, che la Spagna ha fatto molto più dell’Italia sul fronte in questi anni anche e soprattutto sul fronte delle rinnovabili.
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