Quattro morti sul lavoro ogni giorno: non sono numeri ma persone. A partire da Patrizio
Martedì 5 agosto 2025. Oggi Patrizio Spasiano avrebbe compiuto vent’anni. Queste candeline, però, non le spegnerà mai. Avrà 19 anni per sempre, come ha ricordato Simona, la mamma, durante un presidio davanti alla Prefettura di Napoli, organizzato da Potere al Popolo e Unione Sindacale di Base contro la strage che ha ucciso Ciro, Luigi e Vincenzo, i tre operai edili – due “in nero” – caduti da un’altezza di 20 metri.
Avrà 19 anni per sempre perché il 10 gennaio 2025 è stato ucciso da una fuga di ammoniaca nello stabilimento della FrigoCaserta. In quell’azienda Patrizio lavorava in appalto, come tirocinante, per soli 500€ al mese.
In quella stessa FrigoCaserta, il 31 dicembre c’era stato l’ultimo morto sul lavoro del 2024: Pompeo Mezzacapo, 39 anni, schiacciato da un muletto.
A soli dieci giorni di distanza, Patrizio è stato il primo morto sul lavoro in Campania nel 2025. Il primo di una lista lunghissima che in tutta Italia, al 31 luglio, contava 873 vittime. I dati dell’Osservatorio Nazionale di Bologna sui morti sul lavoro, a differenza di quelli dell’Inail, tengono in conto anche lavoratori in nero e quelli assicurati con altri enti e quindi non sottostimano il fenomeno. Il quadro che ne esce fuori è quello di una carneficina: quattro lavoratori e lavoratrici morti al giorno. Ogni giorno. Come quelli di lunedì 4 agosto: Mario Malzani, 51 anni, morto a Canneto sull’Oglio, nel mantovano; Ziad Saad Abdou Mustafa, 22 anni, e Sayed Abdelwahab Hamad Mahmoud, 39 anni, morti a Santa Maria di Sala, provincia di Venezia; Anastasio Virgilito, 56 anni, morto a Tolentino, nel maceratese. Una vittima ogni 6 ore.
Patrizio e tutti gli altri, però, non sono solo numeri.
Se ci si ferma lì, il rischio è che si volti pagina. Un numero non parla, non emoziona, non spiega. Un numero non ha bisogno che per lui ci si batta. Per un numero che si ottenga o meno verità e giustizia non fa né caldo né freddo.
Dobbiamo tornare a mettere nomi e cognomi, volti e foto, laddove oggi campeggiano solo i nudi dati.
E raccontare: le passioni, il fantacalcio, la partita sugli spalti del Maradona, quelle corse spericolate in motorino, i progetti di vita con la fidanzata, le canzoni urlate a squarciagola e quelle canticchiate a mezzavoce, le paure che non si riusciva a scacciare, le sigarette croce e delizia.
Le vittime di omicidi sul lavoro non sono un numero progressivo in un report dell’Inail; sono esseri umani.
La memoria è sì un esercizio per non dimenticare, per rendere giustizia a una persona; ma, soprattutto, la memoria è un meccanismo da costruire per evitare il rischio di catalogazione e di assuefazione. Perché è vero che rischiamo di assuefarci alla quotidiana strage di lavoratori, di leggere un trafiletto su una pagina interna di un giornale, pronunciare un “quanto mi dispiace” o farci un segno della croce per chi crede, per poi, però, passare avanti.
Costruire una collettività che si prenda cura di sé, che non passi avanti di fronte agli omicidi sul lavoro, è chiave se vogliamo trasformare in meglio la nostra società. Non possiamo limitarci ad aspettare che dall’alto potere politico ed economico-imprenditoriale diano risposte ai nostri pur legittimi bisogni. Non l’hanno fatto finora, né lo faranno solo perché noi abbiamo ragione.
Lo faranno se e solo se irromperanno sulla scena una sensibilità e una mobilitazione popolare che li inchioderà alle loro responsabilità. E, soprattutto, se questa mobilitazione dimostrerà di saper fare in parte già da sé.
Dopo la strage dei tre operai edili di Napoli, mi hanno riferito che tante e tanti hanno scritto ai canali degli organi ispettivi per denunciare cantieri e luoghi di lavoro in cui non vengono rispettate le misure di sicurezza. Un boom di mail e messaggi, con tanto di foto e video allegati, con cui tante persone – semplici cittadini – cercano di dare il loro contributo per salvare vite. Perché quel “mai più”, che ipocritamente i politici pronunciano dopo ogni strage sul lavoro, non sia una frase buttata al vento.
Queste denunce sono un segnale che rompe con l’idea di passività popolare. Ci sono tante persone disposte a fare qualcosa di concreto per migliorare la vita propria e della propria collettività.
È un abbozzo di controllo popolare, tutto da organizzare. Perché la spinta spontanea individuale può scontrarsi contro rigidità burocratiche (nelle denunce si può sempre trovare che c’è qualche dato che manca o troppo generico) o contro l’esiguità del personale degli organi ispettivi, da anni ridotti all’osso in maniera bipartisan,da destra e “sinistra”, sulla base della filosofia ben riassunta da Meloni nel giorno del suo insediamento al governo: “non disturbare chi fa”.
Dobbiamo passare dall’appello al potere affinché faccia qualcosa, a costituirci noi stessi come potere. Dal basso. Un potere che si eserciti innanzitutto come controllo popolare sui luoghi di lavoro. Scrivetemi, scriviamoci. Facciamo che anche un semplice blog possa essere una piccola piattaforma per organizzarci insieme e combattere l’unica guerra che dovremmo condurre: quella contro gli omicidi sul lavoro.
Memoria, controllo popolare, mobilitazione. Sono tasselli di una strategia necessaria a imporre la logica della vita al di sopra di quella del profitto.
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