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Troppo cattivi 2, il comico Francesco De Carlo: «Sono maldestro come Mr. Shark»

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Torna l’affiatata banda di animali fuorilegge ormai redenti. E questa volta non saranno soli.
DreamWorks Animation reimmerge la penna nel mondo creato dallo scrittore australiano Aaron Blabey, affidandosi di nuovo alla regia del francese Pierre Perifel, già animatore di Kung Fu Panda 2 e supervisore all’animazione in Le 5 leggende – Rise of the Guardians. Co-regista: JP Sans, supervisore all’animazione in Trolls World Tour. Dal 20 agosto al cinema riecco Mr. Wolf, Mr. Shark. Mr. Snake, Mr. Piranha e Mr. Tarantola in Troppo Cattivi 2, sequel del film d’animazione del 2022.

Antieroi appena usciti di prigione, gli ex criminali sono pronti alla sfida più grande: diventare membri rispettabili della società. Torna anche Francesco De Carlo a dar la voce al suo amato Mr. Shark, il più grande e grosso della gang, squalo bianco dai denti affilatissimi, eppure il più mansueto del gruppo di animali antropomorfi. «Lo adoro, è il mio personaggio preferito», ci dice il comico romano, tra i volti più rappresentativi della stand-up comedy italiana.

Primo italiano a esibirsi regolarmente al Comedy Cellar di New York, all’estero De Carlo ha calcato i palchi di 17 Paesi. Se su Netflix campeggia il suo spettacolo Cose di questo mondo, lui ha appena concluso il Mortacci tour – Storia di Roma per gente allegra. E da settembre volerà Oltreoceano per Live in America, otto spettacoli nelle principali città americane, diventando anche il primo comico ad avere un tour negli States con uno show in inglese.

La simpatia che ha sul palco, per professione, Francesco De Carlo ce l’ha anche nell’incontro per questa intervista.

Francesco, com’è stato tornare al mondo DreamWorks e al tuo Mr. Shark?

«È una delle esperienze più belle della mia vita: è stato molto molto divertente. Credo che sia il sogno di ogni comico e di ogni bambino doppiare un cartone animato, soprattutto se si tratta di un cartone come questo, davvero spassoso. Avevo lasciato i Troppo Cattivi, in particolare Mr. Shark, nel tentativo di diventare buoni. Adesso stanno provando a rientrare in società, vedremo se ci riescono… Mr. Shark è un personaggio fantastico e sono veramente onorato di dargli la voce».

Mr. Shark in “Troppo cattivi 2” (Credits: Universal Pictures)

Ti è piaciuta l’evoluzione della storia? Entrano in gioco temi come la redenzione, avere e dare una seconda possibilità, ma anche la difficoltà a reinventarsi…

«Io e gli altri comici doppiatori del film siamo rimasti molto colpiti dalla qualità della scrittura. Ci confrontiamo spesso su come la sceneggiatura di Troppo Cattivi 2 sia contemporanea, divertente e veloce, ma anche molto profonda. Riesce a indagare le situazioni. Ho visto il film al Giffoni in un cinema pieno di bambini: facevano un caos infernale ma, appena la proiezione è iniziata, silenzio totale. E hanno partecipato tanto durante la visione: piangevano, urlavano, battevano le mani. È stato bellissimo. Ed è bello che proprio a questi ragazzi si proponga un contenuto comicamente molto alto e leggero, avvincente ma anche ricco di messaggi, come quello appunto della seconda possibilità o il fatto che dentro ogni cattivo c’è qualcosa di buono e dentro ogni buono c’è qualcosa di cattivo. È un cartone animato per bambini ma molto adulto e maturo».

Denti affilati da squalo, Mr. Shark è un gigante gentile, rilassato maestro del travestimento. C’è qualcosa di lui che ti assomiglia?

«Sicuramente mi sento molto simile a lui nell’essere maldestro e nel dover risolvere i guai che lui stesso causa. È molto emotivo, in certi momenti impetuoso, fa delle cose senza rendersene conto, agisce d’istinto ma poi è costretto a mettere una pezza a quel che succede. È il mio personaggio preferito e sono contentissimo che mi sia capitato proprio lui, mi ci ritrovo molto. Ci vedo anche un’affinità nel suo umorismo. Non dico che sia stato facile doppiarlo, anche perché sono state fondamentali la direzione del doppiaggio di Carlo Cosolo e l’attenzione che c’è attorno a un lavoro così difficile, però questa comicità e questo personaggio li sento molto vicini: e questa prossimità ha reso più accessibile e sicuramente più divertente il doppiaggio».

Ma… sii sincerissimo: non avresti preferito invece l’affascinante Mr. Wolf?

«No, non sono e non sarò mai un protagonista in niente. Mr. Wolf ha responsabilità molto importanti che non gli invidio per niente. Fare parte di una squadra come quella dei Troppo Cattivi è bello proprio per questo, perché ognuno dà il suo contributo.
Mr. Wolf ha un arco di trasformazione che mi mette in soggezione, deve tenere tutti in piedi e mostrarsi leader della banda: queste capacità carismatiche io non le ho. Io sono molto bravo a fare casini».

Immagine del film “Troppo cattivi 2” (Credits: Universal Pictures)

Se fossi un animale, quindi considerandoli tutti, non solo quelli di Troppo Cattivi 2, che animale saresti?

«Una volta mi fecero questa domanda, così, per scherzare, e avevo risposto che vorrei essere un animale che crea molti problemi agli altri e quindi un pangolino. Poi non so se questa battuta è invecchiata bene. Sono appassionato di documentari sugli animali, mi piacciono molto gli animali, soprattutto quelli buffi. Ce ne sono alcuni che ancora non hanno trovato il loro cartone animato. Un’altra bella caratteristica della banda dei Troppo Cattivi è proprio questa: molti dei suoi componenti, essendo animali che rappresentiamo come cattivi, non avevano mai avuto la fortuna prima di essere protagonisti di un cartone animato buono.

Mi piacciono tutti gli animali emarginati, che non amiamo e che vediamo unicamente come negativi: mi sembrano più simpatici degli altri. Per esempio le zanzare, mi piacerebbe vedere una storia di zanzare. È facile amare un labrador o un gatto, amare una zanzara o un pangolino o un pipistrello è più complicato. Ecco, quegli animali mi piacciono molto».

Credi che il doppiaggio sia una possibilità e una sfida in più per la tua comicità? Non ti disorienta il fatto di trovarti da solo in una stanza, senza un pubblico di fronte e senza la possibilità di un riscontro immediato?

«No, fatto per un cartone animato come Troppo Cattivi 2 è un mestiere molto divertente. Ovviamente lo dico con grande rispetto per la professione, per cui in Italia c’è una tradizione importante, portata avanti da anni. Io lo vedo come un gioco ma perché ero circondato da professionisti che mi hanno detto cosa fare, mi hanno protetto e fatto divertire. Per il futuro, mi piacerebbe molto rifarlo! Non vedo l’ora!

È un lavoro che si sposa benissimo con la comicità, anche se ha regole completamente diverse rispetto al teatro. E non solo perché non vedi il pubblico ma perché c’è una partitura, devi stare molto attento ai tempi, un po’ come nella musica. L’ esperienza di comico però aiuta: fare un fiato diverso da un altro o trovare il tempo per rendere più efficace una battuta, me lo porto dall’attività di comico ed è molto utile davanti al microfono del doppiaggio».

Qual è la tua sequenza preferita in Troppo Cattivi 2?

«Forse quando Mr. Shark ruba la scena durante un matrimonio, lui celebra, prende la tastiera e fa… delle cose esilaranti. Non posso dire altro per non fare troppo spoiler. È una sequenza veramente spassosa, Mr. Shark se ne esce in tutta la sua simpatica stupidità e voglia di stare al centro dell’attenzione. Mi sono divertito tantissimo a doppiarla. È il momento di Mr. Shark e lui se la cava alla grande».

Francesco De Carlo al Comedy Cellar di New York

Sei stato il primo comico italiano ad aver calcato il palco del celebre Comedy Cellar di New York, una delle vetrine più prestigiose per la stand-up comedy. A settembre sarai il primo comico italiano a lanciare un intero tour negli Stati Uniti, Live in America. Sei pronto? Come ti senti?

«È una cosa decisamente più grande di me», se la ride Francesco De Carlo. «Non sono pronto, però spesso mi sono trovato in questa situazione, non è la prima volta che non sono pronto. Anzi, mi affascina sentirmi così: sono una persona che scrive tanto sotto pressione, è quando do il meglio di me. In questi giorni (lo abbiamo intervistato a fine luglio, ndr) mi dico “devo mettermi a scrivere” e invece continuo ad andare al mare. Ma pochi giorni di pausa ci stanno, abbiamo appena finito la stagione.

Lo spettacolo sarà il racconto di un italiano che segue il suo sogno americano nel momento peggiore per farlo. Devo capire quali parti del mio repertorio degli ultimi quindici anni utilizzare, il racconto ce l’ho già in testa. Vorrei narrare come ci si sente ad arrivare in un Paese ed essere immigrato: sto facendo di tutto per diventare il personaggio più scomodo, il nemico numero uno al mondo, visto che ormai ovunque ce l’hanno con gli immigrati», in un sorriso.

Tu hai già avuto a che fare con il pubblico degli States: come cambia la comicità Oltreoceano? Cosa fa ridere gli italiani e cosa gli americani?

«La comicità è un linguaggio universale, quindi alcune cose fanno ridere ovunque. Ma è anche molto legata alla cultura di riferimento, all’attualità, ai tabù del posto. Qualcosa che è tabù qui magari non lo è là e viceversa. È molto difficile tradurre da una lingua all’altra, anche la scelta delle parole è complicata. Ci sono comunque tantissime cose in comune tra le due culture quindi non ricomincerò da zero. Porto con me l’esperienza che ho maturato in Italia con la differenza che in America sono l’italiano, mentre in Italia sono Francesco.

Da un certo punto di vista sono fortunato perché l’Italia si porta dietro una serie di stereotipi positivi, dal cibo alla moda, dalle auto al vino, tutte cose che questo piccolo Paese è riuscito a esaltare nel mondo tanto da diventare un Paese rilevante. Ed è un bene per me: quando salgo sul palco il mio accento è italianissimo e capiscono al volo le mie origini. D’altra parte, però, c’è il rischio di rimanere incastrati in un personaggio. È per questo che ultimamente sto cercando di diventare anche in America più Francesco e meno italiano.
La carriera nella stand-up è una maratona: ci vogliono tanti anni di lavoro per affinare la propria comicità».

A livello invece di uso della lingua come fonte stessa di comicità, si presta a far ridere più l’italiano o l’inglese?

«Non riesco ancora a capire perché ma l’inglese sembra fatto per la comicità più dell’italiano, un po’ per come predispongono l’ordine degli elementi in una frase, il verbo, gli aggettivi, un po’ perché, essendo una lingua più asciutta, permette di scrivere delle battute che alludono più che dire. Quindi… l’inglese, sì.

La nostra lingua è più ricca, anche perché la conosco di più e ho quindi più vocaboli a disposizione. Noto però che gli americani utilizzano spesso le stesse parole ed espressioni, anche a livelli alti o per esprimere concetti profondi. Ecco, questa semplicità premia nella comicità, che si basa sulla sintesi.
L’italiano è una lingua più poetica, con tanti sinonimi e costruzioni verbali, che si presta molto al racconto, alla narrativa».

Francesco De Carlo al Teatro Celebrazioni a Bologna, 2024

A te invece cosa fa ridere e chi ti fa ridere?

«Mi fanno ridere in tanti. Ultimamente sto riguardando tantissimi film italiani. Ho rivisto da poco Dramma della gelosia con Marcello Mastroianni, Monica Vitti e Giancarlo Giannini: ho pianto dalle risate. E poi Verdone, di cui conosco le battute a memoria. Ho visto recentemente anche L’appartamento di Billy Wilder. Sono tantissime le forme comiche che mi fanno ridere, le più svariate, da Charlie Chaplin a Buster Keaton, da Stanlio e Ollio a Bud Spencer e Terence Hill, da Lino Banfi a Nanni Moretti.

Abbiamo una tradizione comica, soprattutto cinematografica, di primissimo livello, che ha molti contatti anche con la stand-up. Sono contento perché i giovani ultimamente si stanno avvicinando molto a questo genere. Oggi un ragazzo di vent’anni che vuole fare il comico non vuole più fare personaggi, macchiette o tormentoni, ma vuole salire sul palco, prendere il microfono, senza parrucche addosso, e raccontare cosa pensa del mondo. Questa è una bella rivoluzione».

In un mondo un po’ intrappolato dal politicamente corretto, la stand-up comedy è la terra franca dove si può ridere di tutto senza paletti?

«Sì, anche se questo politicamente corretto non è poi così presente. Mi sembra che se ne parli molto ma alla fine poi tutti dicono tutto, anche troppo a mio avviso, con la scusa di reclamare la libertà d’espressione. Ce ne vorrebbe anzi di più, secondo me, di politicamente corretto, soprattutto in televisione e alla radio.

Quando un comico vuole dissacrare deve poterlo fare, funziona così in qualsiasi teatro nel mondo e il pubblico paga il biglietto per questo. Ma quando si tratta di un talk show politico o di un programma televisivo in prima serata è giusto che ci siano delle regole, anzi, credo che ne servano di più. Il teatro e il mainstream sono due strade diverse.

C’è stata una fase in effetti in cui il politicamente corretto ha preso il sopravvento,  l’ho visto al Fringe Festival di Edimburgo, dove per alcuni anni sono stati premiati comici che parlavano di traumi e tragedie proprio per questo senso di colpa collettivo, come se la risata fosse diventata un problema. Non si poteva scherzare più su niente. È stata una deriva pericolosa ma credo che sia superata, si è tornati a un equilibrio».

Come vedi il futuro della stand-up comedy in Italia?

«Sono ottimista. Pensavo che la stand-up non sarebbe mai arrivata in Italia ma fortunatamente mi sbagliavo, è il motivo per cui ho iniziato a farla all’estero. Ora però ci sono gli stand-up comedian ma manca la stand-up comedy: i comici ci sono, che portano tanta gente al teatro, anche se sono una quindicina i nomi di primissimo livello. Poi c’è tutta una platea di giovani che fa tante serate, con numeri più piccoli, e sta crescendo. Sono la speranza per la stand-up. Ma a fianco agli stand-up comedian devono nascere i locali, i manager, i promoter teatrali, tutto un sistema che promuove il genere. Dobbiamo trovare il modo di raccontarla in televisione.

Se si crea questa struttura e se i comici capiscono che possono fare qualcosa di diverso da quello che è stato fatto in Italia negli ultimi vent’anni, credo che la stand-up possa avere un grande futuro in un Paese come l’Italia. Anche se c’è un limite che sto scoprendo ultimamente: gli italiani, rispetto ad esempio agli inglesi o agli americani, sono poco avvezzi a ridere di sé stessi. E quindi il comico di stand-up, che sale sul palco con il suo nome e cognome e prende in giro i suoi vizi per prendere in giro quelli degli altri, sicuramente ha un terreno più ostico in un Paese permaloso in cui vincono le maschere, la commedia dell’arte, i personaggi e le parodie, più abituato a prendere in giro qualcosa che sta fuori dal teatro.

Invece la stand-up prende in giro chi sta nel teatro e questo è un pochettino più faticoso in un Paese come l’Italia. La strada è più in salita però, grazie a Dio, ci sono tanti comici internazionali che stanno venendo in Italia e internet ci permette di vedere quanto sono bravi i numeri uno al mondo. Per fortuna c’è sempre più richiesta di una comicità più contemporanea, rispetto a quella più scontata che i giovani di oggi probabilmente non seguono più».




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