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“Se sei afghano in Iran, la tua vita non merita di essere salvata”. “Siamo diventati il capro espiatorio della disfatta contro Israele”: le voci dei deportati da Teheran

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Questa è la seconda parte di una serie che documenta il ritorno dei rifugiati afghani dall’Iran (qui la prima puntata). Il primo articolo ha seguito gli attraversamenti di confine a Zaranj e Islam Qala, dove le famiglie arrivavano con nient’altro che i vestiti che indossavano. Questa seconda puntata si concentra su ciò che accade all’interno dell’Iran e lungo la via del ritorno: la violenza, i tradimenti, le fosse comuni. E infine, le ferite, fisiche e invisibili, che attraversano il confine molto prima delle persone.

Mentre il mondo è tornato a ricordarsi del Paese a causa del violento terremoto che ha fatto più di 2mila morti, continua il dramma dei rifugiati afghani che, nel silenzio internazionale, vengono respinti da Pakistan e Iran. Una deportazione di massa che, secondo gli ultimi dati, da inizio 2025 ha riguardato oltre un milione di persone. Teheran, in particolare, ha intensificato le deportazioni di massa dopo la guerra con Israele e le accuse di coinvolgimento di cittadini afghani in attività del Mossad. Migliaia di persone vengono così riportate in un Afghanistan già provato da una crisi economica profonda.

Le testimonianze qui raccontano di un uomo la cui figlia tossisce sangue mentre gli vengono trattenuti salario e caparra; di un operaio ferito a cui è stata negata l’assistenza; di sei uomini picchiati fino a quando quattro di loro non si sono più rialzati; e di un cugino morto per il morso di un serpente sotto il sole del deserto. Un incendio su un autobus ha poi bruciato vive più di ottanta persone deportate, in uno dei peggiori disastri della memoria recente. Ilfattoquotidiano.it ha raccolto le testimonianze dirette di chi sta vivendo le deportazioni e le riporta sotto pseudonimi su richiesta degli intervistati.

“Ho implorato di avere i soldi che mi spettano per curare mia figlia, ma non mi hanno restituito nulla” – “Mia figlia Nahid è malata, molto malata”, racconta Muhammad Sultani che si trova a Islam Qala (Herat). “I medici qui dicono che potrebbe avere un tumore ai polmoni, forse un cancro, e che dobbiamo portarla immediatamente in Pakistan per le cure. In Iran ho lavorato duramente, ma il mio datore di lavoro mi deve ancora 200.000 afghani (circa 2.250 dollari) e il proprietario di casa ha trattenuto la nostra caparra di 97.000 afghani (circa 1.090 dollari). Ho chiamato, ho implorato, ma non ci hanno restituito nulla.

Quando sei afghano in Iran, possono trattenerti ciò che è tuo e non puoi farci niente, non c’è nessuno che ascolti, nessuno che aiuti. Siamo arrivati qui senza nulla, senza casa, senza lavoro, senza soldi per le sue cure. Nel campo tossiva tutta la notte a causa della polvere e del caldo.

Ora sto solo cercando un modo per portarla in Pakistan prima che sia troppo tardi. Lei è tutto il mio mondo. Non posso perderla”.

“Hanno reso la vita così impossibile che non ci restava altra scelta che andarcene” – “Ho lavorato per anni in una fabbrica di sale in Iran”, dice Hussain Ali, anche lui da Islam Qala, (Herat). Un giorno la mia mano è scivolata e l’ago della macchina mi ha portato via metà dell’indice. Sono andato all’ospedale 15 Khordad di Teheran dopo una lunga attesa in città, e questo solo dopo aver affrontato grandi difficoltà.»

Mentre piangeva e respirava a fatica, continuava con molto dolore: “Quando iniziò il conflitto Iran–Israele, smisero di permettere agli afghani di muoversi liberamente. Non potevamo lasciare la città in cui vivevamo, né per lavoro, né per la famiglia, nemmeno per cure. Era come se i muri si fossero chiusi attorno a noi. Io la chiamo una prigione senza sbarre.

Mia figlia Fereshta, ha solo undici anni. I medici di Teheran mi hanno dato questo referto… dicono che il suo cervello non funziona come quello degli altri bambini. Problemi di memoria, di pensiero, di umore. Credo che non sia solo una malattia congenita; è ciò che la vita le ha fatto. Crescendo nella paura, sentendo insulti ogni giorno, senza sapere mai se saremmo stati mandati via. Un bambino non può crescere così. Può solo cercare di sopravvivere.

Non ci hanno “deportati”. Deportazione è una parola troppo pulita. Hanno reso la vita così impossibile che non ci restava altra scelta che andarcene. È così che si sbarazzano di te. Ti tolgono la possibilità di vivere. Il governo portava avanti un Danno di Stato contro i rifugiati afghani, come una Detenzione di fatto.

Torno a Bamyan. Non posso permettermi Kabul, né nessuna grande città. Almeno lì avremo un tetto, anche se nient’altro”.

“Essere afghano basta perché decidano che la tua vita non vale la pena di essere salvata” – “Stavo costruendo la loro città quando sono caduto”, è la testimonianza di Farid Ahmad da Islam Qala (Herat). “Due piani più in alto, portando mattoni, senza corda di sicurezza, senza imbracatura. Ho colpito forte il suolo, ma non era solo il suolo: un lungo ferro spuntava dalle macerie. Mi è entrato nel fianco, squarciandomi. Sento ancora il freddo di quell’acciaio dentro di me.

I miei colleghi mi hanno portato fuori, ma non avevo assicurazione, quindi non potevano portarmi in ospedale. Essere afghano basta perché decidano che la tua vita non vale la pena di essere salvata. Sono passate ore prima che finalmente mi accettassero da qualche parte. A quel punto ero quasi morto, il mio sangue impregnava la barella, avevo il sapore del ferro in bocca.

Ho il filmato di ciò che è successo. È difficile da guardare: le cinghie che mi tenevano fermo, il mio petto che si alzava lentamente, i medici che si muovevano intorno a me con il ferro ancora conficcato nel fianco. Ogni edificio in Iran è costruito con il sangue e il sudore degli afghani, ma quando cadiamo, ci calpestano. Costruisci le loro case, ma non ti apriranno mai la porta”.

“Eravamo sei persone, quattro afghani e due pakistani”, racconta Ali Madad da Islam Qala (Herat). “Ci hanno chiesto documenti e permessi di uscita. Li abbiamo consegnati, ma invece di accettarli, l’ufficiale ha strappato i fogli e la sua rabbia si è trasformata in violenza. Il pestaggio è iniziato subito. Quattro di noi non sono sopravvissuti. Ho visto i miei amici morire sotto i colpi. Usavano tutto ciò che avevano in mano: bastoni, spranghe, pugni, calci, colpendo con tutta la forza finché non c’era più movimento. Io giacevo lì, semi-incosciente, il corpo distrutto, mentre si rivolgevano ai due pakistani. Li hanno picchiati con una spranga di metallo in modo così brutale che nessun essere umano avrebbe potuto sopportarlo.

Pensavo che sarei morto anch’io. Ma un mio vicino afghano mi ha tirato fuori, mi ha portato a casa sua e mi ha tenuto in vita. Mi ha dato medicine, mi ha dato da mangiare. Senza di lui non sarei qui a parlare.

Le mie mani sono rotte. La mia testa è rotta. Le mie costole sono rotte. Dopo, mi hanno gettato nei campi, fino a quando finalmente mi hanno spinto oltre il confine in Afghanistan. I campi sono un altro luogo di crudeltà. I responsabili di quei campi ti trattano peggio di un animale. Ti insultano, maledicono i tuoi figli, tua moglie, tua madre e le tue sorelle, tutto davanti a te, e tu non puoi fare nulla. La tua dignità, il tuo orgoglio e il tuo onore vengono strappati via in quei momenti.

Ho visto con i miei occhi come un afghano, che per errore aveva scattato una foto dentro il campo, è stato trascinato via. Lo hanno picchiato, poi chiuso in una cella singola. È rimasto lì dieci giorni. Per quattro o cinque giorni consecutivi non gli hanno dato cibo. Questa è la vita che gli afghani vivono lì, ed è così che ci ributtano indietro, spezzati”.

“Siamo diventati il capro espiatorio”
“Un mio lontano cugino”, è la storia di Hashmat Nasimi, “è stato preso dalla città e buttato in un campo, nel deserto sotto il sole cocente. È stato morso da un serpente velenoso. Lo hanno lasciato lì, senza cure, senza attenzione, niente, fino a quando ha esalato l’ultimo respiro. Solo allora il suo corpo è stato restituito alla famiglia.

Sono in Iran dalla caduta del governo repubblicano in Afghanistan. Mia madre è mezza iraniana, eppure nemmeno questo mi dà protezione. Non posso uscire liberamente. Non posso lavorare. Da giorni sono chiuso in casa, temendo che prendano anche me, che mi gettino in uno di quei campi. Non posso rischiare, ho mia madre, mia moglie, mio figlio e altri familiari di cui occuparmi.

Credo fermamente che queste deportazioni non siano casuali. Sono una tecnica del governo iraniano per coprire la loro sconfitta contro Israele e i gravi problemi economici interni, con carenze di acqua ed elettricità che rendono difficile la vita a tutti. E ha funzionato. La guerra, le carenze, la rabbia della gente: tutto è stato oscurato da un’indignazione nazionale concentrata sui rifugiati afghani. Siamo diventati il capro espiatorio, il bersaglio facile”.

“Ho visto persone bruviate vive in un incidente durante le deportazioni” – Abdullah Mohmand, reporter locale, ha assistito a un drammatico incidente sull’autostrada Islam Qala–Herat–Kabul: “Tra tutte le miserie, i dolori e le sofferenze che abbiamo visto”, dicem “uno degli incidenti più scioccanti e angoscianti è avvenuto la sera del 28 Asad 1404 (19 agosto 2025) verso le 20. Ha causato la morte di oltre 80 persone sul colpo.

L’autobus era pieno di afghani deportati, uomini e donne, anziani e bambini, persino donne incinte, che tornavano dal confine. Testimoni del distretto di Kalata dicono che gli autisti spingono sempre i bus a 180–200 chilometri all’ora lungo questa autostrada e assistiamo spesso a simili incidenti. Prima ha colpito una motocicletta senza luci con due persone a bordo. Poi ha perso il controllo ed è finito contro un camion carico di grandi taniche di benzina.

Le taniche sono finite sotto l’autobus, e in pochi secondi il camion è esploso. L’autobus ha preso fuoco da davanti a dietro. I passeggeri erano già esausti, molti feriti dall’impatto. Le porte erano bloccate dalle fiamme, i finestrini pieni di fuoco. Nessuno poteva scappare. Tutti sono stati bruciati vivi dentro.

I residenti mi hanno raccontato che si trovavano a soli 100–200 metri di distanza, guardando le persone bruciare, gridare, urlare, battere sui finestrini, ma non potevano fare nulla. I pompieri sono arrivati 40–50 minuti dopo, troppo tardi. Alcuni passeggeri hanno cercato di rompere i finestrini, ma nessuno è riuscito a uscire: erano già mezzo bruciati.

In seguito, i documenti hanno mostrato che l’autobus trasportava persone da tutta l’Afghanistan, da molte province, compresi 14 bambini. Intere famiglie sono scomparse in pochi minuti. Il terreno è ancora nero dove l’autobus è bruciato, e l’aria odora ancora di fumo e dolore”.

*Foto di Muhammad Balabuluki

L'articolo “Se sei afghano in Iran, la tua vita non merita di essere salvata”. “Siamo diventati il capro espiatorio della disfatta contro Israele”: le voci dei deportati da Teheran proviene da Il Fatto Quotidiano.




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