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La Pa non valorizza le competenze acquisite prima dell’assunzione: eppure un modo per rendere merito c’è

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“Una Pubblica Amministrazione forte è il motore dello sviluppo del Paese”, ha spiegato il Ministro per la PA Paolo Zangrillo quest’estate, chiarendo che “i dipendenti pubblici crescono, da 3,2 a 3,4 milioni di persone”. E questo non è “solo un numero” ma “la voglia di costruire un futuro nel settore pubblico fatto di crescita professionale, competenze e soddisfazione”. Tre aspetti che il Ministro ha riassunto in un trittico: “sapere, saper fare, saper essere: le tre chiavi per premiare il merito e formare una squadra forte, dove il talento di ognuno diventa valore per tutti”.

Da dipendente pubblico sono rimasto incuriosito da questa dichiarazione, di ottimi intenti. Incuriosito perché nella mia esperienza professionale in PA ho notato quanto gli enti pubblici, spesso, sottoutilizzino il proprio personale. E che tra i motivi ce ne sia proprio uno risolvibile e inesplorato, legato a quel trittico promosso dal Ministro: il riconoscimento delle qualifiche professionali dei dipendenti pubblici, ulteriori a quelle del profilo del concorso di assunzione.

Nella PA contemporanea, infatti, è comune trovare persone laureate che sono assunte tramite concorsi riservati a possessori di un titolo di studio inferiore: ad esempio laureati che entrano in concorsi per diplomati divenendo – nel gergo della PA – “Istruttori”. Queste persone si trovano così a lavorare nell’ente di assunzione usando solo una piccola parte delle proprie capacità e competenze, acquisite di certo successivamente ad un titolo di studio preso a 18-19 anni.

Ebbene quelle capacità e competenze, che rappresentano realmente chi sono questi neodipendenti al momento della vittoria del concorso (capacità e competenze scritte sul curriculum vitae nella piattaforma Inpa – porta unica ai concorsi per tutto il pubblico impiego), sono spesso ignorate dall’ente che li assume. Il motivo è semplice: l’ente ha creato il concorso per un profilo specifico, rigidamente determinato, e si ferma al verificare se chi ha vinto il concorso abbia i requisiti indicati nel bando di concorso per ricoprirlo, ad esempio il possesso del diploma come titolo di studio.

Faccio parte di una generazione che ha spesso curriculum da molte pagine e conti correnti a fine mese a quattro, se non tre cifre. Quei curriculum raccontano un paniere di competenze variegato, composito, e quel conto corrente la difficoltà di stabilizzarsi in un mondo del lavoro precario, spesso cannibale e con salari ingessati. Quando questo capitale umano finisce nel pubblico impiego stremato dalle esternalità negative del precariato, è un vero peccato vederlo sottoutilizzato per ingessature del sistema.

Mi è capitato per esempio di conoscere un collega avvocato assunto per concorso come istruttore amministrativo agli affari generali di un ente. Ebbene quel collega non poteva occuparsi di cause legali per l’ente, anche solo in assistenza dell’avvocatura, a margine di quanto richiesto al suo ruolo d’assunzione. E nel frattempo l’ente, per le sue cause, doveva andare a pescare dal privato qualche suo omologo, con ben altri onorari.

Il sistema migliora, nella PA per tutti, solo se tutte le risorse sono utilizzate al meglio. E parte del merito richiamato dal Ministro Zangrillo è associato al concetto del far fare ad ognuno quel che sa e può, retribuendolo per quanto offre. Gli enti pubblici hanno sicuramente bisogni ampiamente gestibili con una parte del personale già assunto, ma restano incapaci di soddisfarli perché ignorano le capacità e competenze delle proprie risorse umane acquisite prima dell’assunzione, e ingessano quel personale nel profilo professionale del concorso vinto.

La ricetta esistente ad oggi nella PA per tentare di ridurre questo gap sono le progressioni verticali. Ovvero il fatto che dopo tre anni dall’assunzione con una qualifica inferiore a quella per cui avresti i titoli e requisiti, puoi fare una selezione interna per elevarti. Servono però quei tre anni di servizio, spesso col massimo dei voti dati dai tuoi superiori – augurandosi li diano onestamente -, e nel frattempo quel capitale umano resta quindi in freezer, non si aggiorna, perde il passo. Inoltre le progressioni verticali non sono un obbligo. In alcuni enti sono una specie di miraggio. E quel che accade è che poi quelle persone sottoutilizzate lasciano l’ente alla ricerca di una soluzione migliore più consona alle proprie aspirazioni o necessità.

Per superare la rigidità del profilo di assunzione servirebbe almeno rendere merito della capacità di un singolo di gestire più profili. Nel 2025 un neoassunto potrebbe infatti saper redigere atti amministrativi e assumersene la responsabilità (da “specialista amministrativo e contabile”), ma anche creare file grafici o piani di comunicazione (da “specialista della comunicazione”) oppure progettare una rotatoria (da “Istruttore direttivo tecnico”). E una modalità per iniziare a superare il problema, a mio avviso, ci sarebbe.

Quando una persona è assunta per concorso da una PA, con un determinato “profilo”, questo potrebbe restare acquisito dalla persona e utilizzabile dagli altri enti di futura assunzione. Il concorso diventerebbe quindi sia un modo per entrare in una determinata PA, com’è già oggi, sia un modo per certificare un “profilo professionale” che resterebbe acquisito e registrato sul portale unico Inpa. All’eventuale passaggio tramite concorso ad un altro ente, magari perché più vicino a casa, con un differente profilo, questo si sommerebbe a quello già acquisito. E se l’ente di destinazione avesse bisogno di quelle competenze precedentemente acquisite, quel nuovo dipendente potrebbe metterle a disposizione, previo riconoscimento della differenza stipendiale (in quota rispetto al totale sulla base delle ore lavoro prestate).

Magari l’ente ti ha assunto per fare l’istruttore amministrativo, ma se novità come la digitalizzazione o la diffusione dell’Ai ti lasciano tempo a disposizione e sai fare anche il consulente legale – perché saresti un avvocato e lo hai già fatto in passato in una PA – perché non metterti a disposizione a fronte di una integrazione proporzionale della retribuzione? Se poi la necessità fosse strutturale, l’ente potrebbe effettuare una progressione verticale apposita.

Quanti architetti, oggi assunti come istruttori tecnici (es. geometri), potrebbero iniziare così a fare gli architetti nei nostri enti pubblici riducendo l’affidamento a studi esterni per la progettazione delle opere pubbliche! Magari qualcuno vorrà evitarlo, per ragioni sue, ma l’ente potrebbe presentarla come possibilità e nell’incontro di intenti, migliorarsi. Un buon modo a mio umile parere per “costruire un futuro nel settore pubblico fatto di crescita professionale, competenze e soddisfazione” come quello descritto dal Ministro Zangrillo.

L'articolo La Pa non valorizza le competenze acquisite prima dell’assunzione: eppure un modo per rendere merito c’è proviene da Il Fatto Quotidiano.




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