Nell'arco di poche ore Facebook è finito due volte sul banco degli imputati, a Napoli e in Germania, per aver diffuso dei contenuti illegali. Nel primo caso si tratta di link che rimandavano ai video di Tiziana Cantone, la trentunenne suicida dopo la diffusione di alcuni suoi filmati hot; nel secondo di contenutia sfondo nazista e negazionista. Giusto, anzi giustissimo, prendersela con le mancanze di quello che, con più di un miliardo e mezzo di iscritti, si configura come il continente più popoloso della terra. La creatura di Mark Zuckerberg, d'altronde, fa soldi con quei contenuti e dunque quei contenuti dovrebbe anche verificarli. E lo fa. Ma lo fa a caso, nella migliore delle ipotesi. Ci sono le segnalazioni degli utenti e un algoritmo, si giustificano dalla casa madre negli Stati Uniti. Ma dietro un algoritmo che censura le madri che allattano, le nudità delle opere classiche e non perde occasione per mettere al bando i politici che giocano sul crinale del politicamente scorretto (da Donald Trump a Matteo Salvini, solo per citarne due) non può esserci un'intelligenza artificiale, più probabilmente una stupidità reale.Detto questo, non si può nemmeno puntare solo ed esclusivamente il dito contro Zuckerberg, magari perché è giovane e ricco. E pure americano. Come se fosse un immenso scudo a tutte le responsabilità individuali. Facciamo un esempio: se l'avventore di un ristorante copre di improperi un suo vicino di tavolo, non viene arrestato il proprietario del locale. Ma il commensale sovraeccitato.Così, anche sulle reti sociali, chi insulta, offende o commette reati deve essere il primo a pagare il conto delle azioni che ha commesso. Perché il reato è averle scritte quelle cose, non soltanto aver dato a qualcuno la possibilità di digitarle. Perché la colpa di tutti finisce sempre per essere la punizione di nessuno.È banale: chi sproloquia su Facebook, che come dice il nome è un grande libro delle facce, deve metterci la faccia, fino in fondo, anche in tribunale. E se necessario anche le terga, pronte a ricevere un calcio.Francesco Maria Del Vigo
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