«l'Unità, il formato grande
e la speranza tradita dal voto»
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Forse nessun giornale farà mai di domenica una così vasta rivoluzione grafica e organizzativa. Gli esperti lo sconsigliano. Noi abbiamo addirittura moltiplicato l’azzardo e, a ripensarci, mi vengono ancora i brividi. Che figura se avessimo esordito con la sconfitta di Hollande alle presidenziali francesi! Come avremmo titolato: Sarkozy affonda la sinistra europea? Ripartire dalla vittoria dei socialisti francesi era invece per noi un’idea forte.
L’Unità aveva condotto nei mesi precedenti una battaglia coraggiosa, anche nella sinistra, ed era diventata un punto di riferimento nella critica democratica alla linea di austerità europea. All’inizio ci sono state incomprensioni e conflitti, pure nel nostro mondo. Ricordo i giorni della lettera della Bce e alcune discussioni aspre con dirigenti del Pd.
Nell’anno più buio del governo Berlusconi, tra la rottura con Fini dell’autunno 2010 e le dimissioni dell’anno successivo, non pochi nel centrosinistra pensavano che la rivincita sul Cavaliere fosse possibile solo con un’adesione senza riserve alla linea di Bruxelles e della Bce. Secondo questa impostazione, il Pd doveva essere anzitutto affidabile e disciplinato, laddove Berlusconi aveva fallito per approssimazione, discredito, velleitarismo.
E non è stato facile per noi tenere una linea critica verso il rigorismo europeo, quando le cancellerie del continente erano sempre più dure verso lo sgangherato governo Berlusconi. Ma non si potevano chiudere gli occhi davanti al dramma della Grecia.
L’Unità provò a rompere quella tenaglia che stava stritolando anche la sinistra italiana. L’antieuropeismo per la prima volta metteva radici nelle pieghe della sofferenza sociale: lo coglievamo raccontando un Paese impaurito e avvelenato (molto belle, a rileggerle ancora oggi, le «Cronache operaie» di Rinaldo Gianola, il suo viaggio-inchiesta sull’Italia del lavoro). Credo che il giornale abbia offerto ai lettori un pensiero critico, e abbia anche aumentato la consapevolezza nel centrosinistra, grazie agli articoli controcorrente dei nostri economisti: Silvano Andriani, Paolo Guerrieri, Massimo D’Antoni, Ronny Mazzocchi, Emilio Barucci, Laura Pennacchi, Paolo Leon, Ruggero Paladini.
La sinistra italiana non poteva consumare il proprio europeismo in un’adesione acritica all’Europa dei tecnici e delle ingiustizie strutturali. Europeismo oggi è costruire un’Europa diversa. Da qui la scelta di puntare sulle elezioni francesi come occasione di svolta europea, mentre il governo Monti aveva già finito la «spinta propulsiva». Il 23 febbraio 2012 l’Unità aveva pubblicato in anticipo il «Manifesto di Parigi» dei socialisti e democratici europei: era l’avvio della campagna di Hollande. Era una sfida della sinistra e nella sinistra, visto che la stagione elettorale sarebbe arrivata presto anche in Italia (e in Germania).
Ma, al di là delle passioni politiche che sono il sale del nostro impegno professionale, quei giorni restano fissati nella mia memoria soprattutto dal segno forte, solidale, comunitario delle donne e degli uomini che danno vita a l’Unità. Sono stati i giorni più belli e intensi del periodo in cui sono stato direttore. L’Unità è una comunità originale e complessa. Con robuste personalità, con sentimenti irruenti. Ma ci sono momenti in cui questa comunità riesce a raccogliersi attorno a un progetto comune, esprimendo una forza e una creatività sorprendenti.
Penso di aver vissuto uno di quei momenti nei giorni del ritorno de l’Unità alle dimensioni più grandi - con una seconda parte del giornale che abbiamo chiamato U: e che nelle nostre intenzioni doveva riprendere il filo dell’Unità2 di Walter Veltroni. In fondo, come il mercato dell’editoria impone a tutti, stavamo tentando un rilancio attraverso un’operazione di ristrutturazione e di risparmio. Non c’era investimento aggiuntivo se non quello nostro su noi stessi.
Ricordo la riunione anticipata alla mattina (di solito alla domenica si fa il primo pomeriggio), ricordo il pranzo rapido e propiziatorio al Biondo Tevere (luogo pasoliniano) con tanti colleghi, ricordo il sostegno di Pietro Spataro e Luca Landò, il sorriso di Daniela Amenta, la rassicurante fraternità di Paolo Branca (perno della redazione e àncora di realismo). Ricordo Umberto De Giovannangeli in ansia per l’intervista telefonica concordata in serata con Laurent Fabius, oggi ministro degli Esteri.
Ovviamente ci riuscì benché la nostra chiusura fosse anticipata. Ricordo il bellissimo commento di Paolo Soldini, al cui europeismo critico l’Unità deve molto. Ricordo Francesco Cundari, che scrisse un pezzo per legare la vicenda francese con le amministrative italiane e insistette per titolarlo: «Un voto contro tutti i commissariamenti». Faccio un grave torto non citando tutti, uno per uno. Sento un debito per quei segni di umanità e di amicizia.
Purtroppo la svolta di Hollande è stata inferiore alle nostre aspettative. La sinistra europea stenta ad avere un’idea di Europa. Per questo non ha la forza di cambiare, come dovrebbe, le sue politiche. Il progetto della sinistra italiana di guidare un governo di ricostruzione dopo l’infausta stagione berlusconiana non ha avuto successo nelle elezioni del febbraio scorso per diversi motivi, ma il deficit politico e le contraddizioni della sinistra europea sono tra le ragioni principali. Proprio la gabbia del rigore, oltre a imprigionare le politiche espansive, ha tolto forza alla sinistra e alla proposta di Pier Luigi Bersani. Ha rafforzato l’idea di una politica impotente e ha aperto la strada a una ribellione elettorale senza precedenti.
La vittoria di Hollande in Francia è stata la tappa intermedia di un percorso politico tra il 12 novembre 2011 (dimissioni del governo Berlusconi) e le elezioni del 24-25 febbraio 2013. Senza la speranza europea, il ventennio da noi si è concluso in una pericolosa palude. Sia chiaro, non ho cambiato opinione dal giorno in cui titolammo il giornale «La liberazione»: la fine del governo Berlusconi segna la fine della sua epoca. Anche se non cancella la consistenza politica e sociale della destra, come è stata ridisegnata dal Cavaliere. Il vero problema resta la forza e il profilo della sinistra riformatrice.
Gli ultimi due anni, seguiti al tracollo berlusconiano, sono stati un lungo travaglio. La responsabilità nazionale non è bastata ad evitare un nuovo insuccesso elettorale (benché sia una «strana» sconfitta, visto che la sinistra non ha mai avuto tante responsabilità istituzionali come oggi e visto che sul Parlamento nato dalle elezioni del 2013 si può innestare addirittura un governo Renzi). E ora, dopo le ultime primarie, si riparte con modalità e con linguaggi inediti.
Ricordo di aver avuto con Pier Luigi Bersani una discussione vivace nell’estate 2012. È stata la sola volta in cui mi inviò un sms per farmi sapere che dissentiva da un mio articolo: sostenevo che bisognasse cogliere al volo l’offerta del Pdl per riformare il Porcellum attraverso l’istituzione di un premio del 10% al partito primo arrivato. Sostenevo che questo avrebbe consentito di ricostruire il sistema su pochi partiti, eliminando l’anomalia italiana del maggioritario di coalizione, e avrebbe anche aperto la strada ad elezioni nell’autunno 2012.
Bersani non condivideva il mio giudizio perentorio sul maggioritario di coalizione e considerava impraticabile l’accordo con il Pdl (Quagliariello apriva, Verdini rilanciava e Berlusconi chiudeva). Ma soprattutto ricordo la sua viva preoccupazione, già allora, per la capacità di Grillo di catalizzare protesta, ribellione, antipolitica. «Ti rendi conto - mi disse - cosa può accadere se diamo il premio al primo partito e poi Grillo vince raccogliendo tutti gli scontenti? Non voglio prendermi la responsabilità di consegnare a loro le chiavi del governo e della Costituzione». Continuo a pensare che, se fossimo andati alle elezioni in autunno (il Capo dello Stato poneva come sola condizione il varo della legge elettorale), il Pd sarebbe andato meglio e Sel avrebbe fatto la lista unitaria con il Pd. Ma, ripensando a quei giorni, mi colpisce quanto Bersani fosse avvertito del potenziale di crescita del fenomeno Grillo.
I Cinque stelle avevano appena conquistato Parma. E lui capiva che l’insidia veniva tutta da quel fronte. Per questo ha scelto di percorrere la strada delle primarie (anche se i sondaggi davano altissimo Renzi) e della coalizione (con Vendola e Tabacci). Voleva rilegittimare il suo progetto ed era pronto a correre il rischio. Poi l’intesa parlamentare con Monti non sarebbe stata difficile. Ma tutto ciò non bastò. Non so se Bersani sia disposto ad ammettere che proprio quelle primarie, che pure gli hanno dato energia, hanno prodotto un radicale antagonismo con Matteo Renzi e dunque rafforzato il discredito verso la classe dirigente della sinistra. Glielo chiederò quando lo andrò a trovare a Piacenza. Spero presto.