Rooney Mara, la forza della gentilezza
Qualche settimana dopo la nostra intervista, incontro di nuovo Rooney Mara a un party, a Venezia. Al festival è con il suo compagno, Joaquin Phoenix, protagonista di Joker, Leone d’Oro al festival.
Nella hall, da sola, illumina indifferentemente tutti quelli che entrano, ospiti della festa e turisti. Sorride sempre. Anche mentre ti parla e capisci che un po’ ti sta studiando. Non per giudicarti, semmai per trovare un angolino di affinità.
Non sorprende che Givenchy l’abbia scelta come «erede» di Audrey Hepburn per il lancio della nuova Eau de toilette L’Interdit. Entrambe hanno il dono dell’eleganza interiore, che non si compra e non s’impara. Entrambe, delicate e minute, sono un concentrato di forza: «Per me il coraggio è la qualità più importante. Senza, è impossibile raggiungere quello che vuoi nella vita». E lei ne ha di coraggio? Risponde dubbiosa: «Mi piace pensare di sì, ma non ne sono sicura».
Si concede, però, altre due doti interiori. Primo, la riservatezza. Non serve che un assistente intimi di non fare domande sulla sua relazione con Joaquin Phoenix: «Da quanto state insieme? Avete in mente di sposarvi?». Il suo sguardo, da solo, basta a disarmare ogni intento invasivo.
Secondo, l’intensità: «So di essere dotata di una forte energia», ammette. Chi ricorda la scena in The Social Network, del 2010, il film che l’ha lanciata, sa di cosa si parla.
Mara interpretava la fidanzata di Mark Zuckerberg, un piccolo ruolo. Eppure le bastò una manciata di minuti per rimanere impressa nella memoria. In tanti si chiesero chi fosse quella giovane attrice mai vista prima. Lo stesso regista, David Fincher, rimase talmente colpito da lottare fino all’ultimo per averla, l’anno dopo, in Millennium – Uomini che odiano le donne, una semi sconosciuta al posto di attrici già affermate.
Essere testimonial di un brand come Givenchy significa anche diventare un modello per le altre donne. Che effetto le fa?
«Per me è un onore. È un brand che ho sempre amato.
Ma non riesco proprio a considerarmi un “modello”. A dire il vero, non ci penso neppure a questo genere di cose. L’unica responsabilità che sento, anche molto grande, è di essere fedele a me stessa, alle mie scelte, ai miei valori. Se, poi, qualcuno vuole seguirmi in qualcosa che faccio e che dico, be’, è fantastico. Ma non mi metto certo a pontificare. Chi sono io per dire: “Ne so più di voi su questo o quest’altro”?».
Quali sono i suoi valori?
«Penso sempre che quello che faccio abbia un effetto sulle persone e che queste a loro volta avranno un impatto sugli altri, come in una sorta di reazione a catena. Siamo tutti legati, connessi. È una realtà che ho ben presente e faccio il possibile per vivere di conseguenza. Nei rapporti con il prossimo cerco di essere empatica, di capire chi mi sta intorno. Non dico di riuscirci sempre, però ci provo».
Quindi ogni volta che facciamo qualcosa di buono, possiamo avere un influsso positivo su tantissime persone?
«È così. Ci sono studi, non solo sul fenomeno della correlazione quantistica, che lo dimostrano. Se in un luogo pubblico, per esempio un aeroporto, qualcuno comincia a tremare o ad avere un atteggiamento di nervosismo, quell’energia si irradia immediatamente a tutti coloro che sono nelle vicinanze. Lo stesso in positivo. Sono convinta che un atto gentile si propaghi fino ad arrivare molto lontano».
Quando lavora cerca di diffondere positività?
«Sui set tendo a starmene chiusa nella mia bolla. Proprio perché non voglio farmi influenzare da quello che mi sta intorno mi chiudo, mi tengo al riparo. Devo concentrarmi su un mondo che non esiste, non posso lasciarmi distrarre. E non voglio neppure influire con il mio umore su chi mi circonda. Anche alla sera, finito di girare, preferisco starmene per conto mio, in hotel. Alla fine, certo, cominci a soffrire la solitudine».
È vero che sta per produrre e interpretare un film tratto da A House in the Sky, il libro di memorie di Amanda Lindhout sulla sua esperienza come ostaggio di un gruppo di fondamentalisti in Somalia?
«L’ho letto cinque anni fa e ho deciso di comprare i diritti. Dall’idea alla realizzazione ci sta volendo parecchio tempo. È un progetto cui tengo molto e, proprio per questo, preferisco non parlarne più di tanto per non rovinarlo. Le posso dire solo che mi ha affascinato la protagonista e che la sua storia, secondo me, ci dice molto su che cosa significhi essere una donna. E mi piace il modo in cui tratta il tema del perdono. L’ho trovato meraviglioso».
È vero che ogni volta che si trova a metà di un film comincia a pensare a che cosa succederebbe se morisse all’improvviso?
«E mi metto a ragionare e a fare i calcoli, in base a quante scene abbiamo girato, per cercare di capire se ci sarebbe abbastanza materiale per finire comunque o se, invece, al regista toccherebbe ricominciare dall’inizio con un’altra attrice».
Quale delle due ipotesi preferisce?
«Dipende dal film. Ce ne sono alcuni che avrei preferito rigirassero dall’inizio senza di me» (ride).
Le capita spesso di avere pensieri conflittuali?
«Certo, perché non sono una persona monolitica. Tutti abbiamo dentro aspetti diversi, buoni e cattivi. Non esiste la luce senza il buio, no? Io sento molto questa dualità
dentro di me».
Anche nei confronti della sua carriera come attrice ha dovuto affrontare parecchi dubbi. Ha iniziato molto giovane, sulla scia di sua sorella Kate ma, poi, ha preferito smettere, tornare a studiare e laurearsi.
«Il fatto è che non avrei voluto recitare fino a quando non mi fossi sentita in grado di farlo bene. Non volevo cominciare a lavorare come attrice fin da bambina. Lo so che può far ridere ma per me è sempre stato importante essere presa sul serio, fin dall’inizio. Inoltre, desideravo un’infanzia e un’adolescenza come tutti gli altri: andare a scuola, viaggiare, studiare all’università. In sostanza, avere esperienza della vita prima di dedicarmi alla carriera».
Pensava tutte queste cose da piccola o le pensa ora?
«Già allora. Ero consapevole che per un attore bambino continuare a lavorare da adulto poteva essere molto complicato».
Era davvero saggia.
«A volte anche più di quanto avrei voluto».
Parliamo di Hiraeth, la linea di abbigliamento vegano che ha lanciato un anno fa?
«Givenchy è stata così generosa da realizzare alcuni vestiti e borse apposta per me, ma non è facile trovare abiti e accessori garantiti vegani. Ho pensato di provare a rimediare».
Da che cosa deriva questa sua scelta?
«Dal mio amore per gli animali. Per me è una questione morale. Sono convinta che i sistemi di allevamento industriale siano barbarici. Inoltre, è una dieta che fa bene alle persone e all’ambiente perché l’allevamento è una delle maggiori cause del cambiamento climatico. Molte persone ancora non sanno che il consumo di carne e il riscaldamento globale sono collegati. Come personaggio pubblico, come testimonial di un brand, sento di dover far passare il messaggio».
Non sui social media, però, visto che non ha un account.
«Ci ho pensato. Proprio perché sono molto utili quando si tratta di fare attivismo. Dall’altro lato, ho la sensazione che potrei finire per sentirmi obbligata a postare cose che non voglio, che diventi un qualcosa che devo fare per forza.
Al momento mi rende più felice starmene fuori».
A proposito di animali, una curiosità: è vero che ha chiamato il suo cane Oskar, come Oscar ma con la K?
Ride. «Lo confesso. È un piccolo meticcio, con dentro molto Griffone di Bruxelles. Sembra un Ewok (le creature pelose di Star Wars, ndr), una specie di creatura aliena»