Paola Iezzi: «L’importanza di perdonare noi stessi e gli altri»
Paola Iezzi con la malinconia intrattiene un rapporto di scoperta e curiosità: «Se ripenso agli anni Ottanta, carichi di un pop spumeggiante e colorato, mi vengono in mente molte canzoni romantiche con accordi malinconici. Ho sempre amato la malinconia nelle canzoni, quella che ti fa ballare e sognare» spiega Paola al telefono subito dopo l’ora di pranzo di un venerdì di metà estate, con la nostalgia che suscitano i ricordi del passato e l’adrenalina tipica che accompagna l’uscita di un nuovo progetto. Il suo è Mon Amour, l’Ep che esce a cinque mesi da LTM e che segna il suo ritorno alla musica dopo la sosta forzata del lockdown, l’isolamento che ci ha costretto a digitalizzare qualsiasi rapporto umano facendoci dimenticare il valore della condivisione e delle piccole gioie quotidiane. «Per la quarantena abbiamo parcheggiato il progetto senza sapere se l’estate ci sarebbe stata o meno. Non sappiamo ancora come sarà ma, intanto, mi sembrava giusto premiarmi con un singolo che avevo da tempo nel cassetto».
Al centro di Mon Amour, canzone dalle sonorità esotiche declinata a ritmo dance, c’è sempre la malinconia dettata dal momento, la nostalgia per un mondo nel quale le relazioni amorose erano vere e non avevano bisogno dell’intermediazione di un telefono: «Oggi le relazioni si vivono attraverso i messaggini, le emoticon, le strategie telematiche. Siamo entrati in un flusso digitale, incagliati in sentimenti espressi solo con le faccine e i simboli, e questo genera malinconia». Eppure tutti sogniamo di liberarci dalla dittatura del flusso digitale, spiega Paola Iezzi. Tutti desideriamo gettare il telefonino in mare e poter tornare a vivere in modo più umano, specie dopo il lockdown durante il quale «si è solidificata la distanza siderale tra gli esseri umani».
L’iperconnessione ha, per contrappasso, aumentato le distanze anziché annullarle.
«La tecnologia sta trasformando le nostre abitudini sociali, ma abbiamo ancora i bisogni e l’istinto del primo uomo, un lato che ogni tanto riemerge, soffre e chiede attenzione. È una dicotomia: da una parte c’è il flusso digitale e la condivisione degli spazi privati e dei sentimenti, e dall’altra c’è il retaggio umano e culturale intrinseco dal quale non riusciamo a liberarci. In questo non siamo cambiati poi molto, anzi, ci siamo evoluti pochissimo. La modernità ci ha sovrastato, anche se nella mia canzone non esprimo nessun giudizio negativo: trasmetto solo quell’alone di malinconia mista a disperazione, cercando di capire perché siamo così infelici e perché sembriamo accontentarci di un like alla foto quando poi nutriamo il desiderio di spegnere tutto e riappropriarci della nostra natura».
Lei sente mai il bisogno di staccare?
«Continuamente. Possiamo benissimo sopravvivere con molti meno messaggi, parole e oggetti di quanti non ci abbia consegnato l’era moderna, ossessionata dall’iper-produzione. Se c’è una cosa che il lockdown ha messo in luce sono state le falle del nostro sistema, i fardelli dai quali vogliamo liberarci. Viviamo in un mondo che, per definizione, non può fermarsi: se succede, siamo finiti. Siamo ossessionati dall’ansia di ricominciare in fretta anche in barba ai rischi che potremmo correre».
Alcuni la solitudine la cercano per ritrovarsi e altri la patiscono senza volerla. Lei a quale gruppo appartiene?
«A questo tema ho dedicato una canzone di diversi anni fa, Alone. È vero che da una parte la solitudine è cercata e voluta, anche se in questo caso sarebbe più opportuno parlare di isolamento, ma resta una condizione che non ci permette di instaurare nessuna relazione con l’altro. Molte persone affrontano i problemi da sole perché non sanno come chiedere aiuto, si chiudono in loro stessi, soffrono, si creano un’isola a parte e i telefoni li aiutano in questo intento».
Lei riesce a chiedere aiuto?
«Mi è sempre stato difficile farlo, specie quando ero piccola. Sono avvantaggiata, però, perché la musica è una grossa valvola di sfogo, mi basta prendere una chitarra in mano e immediatamente quella tensione si allenta: la musica è taumaturgica. Penso che la creatività in generale aiuti a sentirsi meno soli: quando butti fuori la negatività, la frustrazione e la rabbia e la riversi in qualcosa è come se si staccassero da te fino alla prossima volta che ti sentirai così. Nel frattempo, però, ho imparato a chiedere aiuto agli amici, a una cerchia molto ristretta di persone di cui mi fido, la mia piccola isola di affetti stabili».
La musica ha fatto parte delle sue giornate durante il lockdown?
«Mi sono completamente affidata alla musica in quelle settimane. Ho riscoperto le vecchie canzoni che ascoltavo da piccola, mi sono messa a fare cose che non facevo più, e ho cercato di concentrarmi su chi vive situazioni pesantissime tutto l’anno, Paesi dove non esiste la libertà d’espressione, dove i bambini non hanno da mangiare. È stato un momento difficile per tutti noi sia fisicamente che psicologicamente, rinchiusi dentro queste gabbie, ma allo stesso tempo siamo stati fortunati».
Parlando sempre del passato, è vero che in Mon Amour si è un po’ ispirata anche a Michael Jackson?
«A Liberian Girl, una delle sue canzoni che amo di più. Quando le certezze del presente vacillano si tende sempre a rifugiarsi nel passato perché sappiamo già cosa è accaduto, solo che bisogna stare attenti a non restarne intrappolati. Ogni tanto guardarsi indietro ti rassicura, è un po’ come una coperta che ti avvolge quando fa freddo. Il passato, però, è anche diabolico perché la memoria tende a eliminare le cose molto pesanti e ad annebbiare alcuni ricordi, specie quando abbiamo vissuto una storia d’amore molto bella. Il passato è una certezza. È il futuro, quello che è ancora da scrivere, a dare più insicurezze».
Lei da ragazzina conservava questa insicurezza?
«Ero molto disciplinata perché papà era piuttosto severo, non ero molto libera di fare quello che volevo. Avevo i miei sogni, mi piaceva ballare e cantare, ricordo Madonna e George Michael, i tantissimi cartoni animati giapponesi di cui non mi perdevo una puntata. A scuola andavo abbastanza bene, ma la musica ha sempre fatto parte di me: all’epoca non era liquida e, quando usciva un disco, dovevi costringere i tuoi a comprarlo o farti la cassettina non ufficiale. Ricordo gli anni Ottanta come un periodo bello in cui c’era molto benessere, ma anche molta malinconia».
Poi frequenta il liceo classico: mai pensato a un piano alternativo alla musica?
«Non l’ho mai avuto, quando c’è un amore non puoi combatterlo. Quando ho capito che volevo fare quello non l’ho più abbandonato, sentivo dentro di me che volevo crescere, iniziare a lavorare. Sapevo di non voler fare l’università perché non era la mia strada e desideravo creare una mia indipendenza. I miei hanno sempre spinto me e mia sorella a costruire il nostro avvenire, perché sarebbe stato disonesto mantenerci fino ai 30 anni, e noi non lo volevamo».
Al liceo è stata alunna di Roberto Vecchioni: lo ha più rivisto?
«In un paio di occasioni all’Inter Club di Stradella, in provincia di Pavia. Ero andata a cantare e ci siamo rivisti, abbiamo parlato. Si ricordava di me perché quello fu il suo ultimo anno al Beccaria, poco dopo si trasferì a Desenzano».
Prima del lockdown è stata ospite a Che tempo che fa con sua sorella Chiara, che adesso ha intrapreso la carriera di attrice vivendo tra l’Italia e Los Angeles. Con certi ricordi dolorosi del passato si può fare pace?
«Non è facile, bisogna impegnarsi tantissimo da entrambe le parti, ma con gli anni ho capito che la cosa più importante nella vita è perdonare e perdonarsi. Se non lo fai è come se il tuo tempo si fermasse, come se ti incagliassi in quel perdono non dato e non ti arrivasse più niente di positivo. Siamo fatti per crescere e andare avanti e autoinfliggersi del dolore che ha delle ripercussioni sulla mente e sul fisico è davvero inutile. Inchiodarsi alle proprie convinzioni non ti permette di proseguire».
I rapporti si erano appianati prima, conferma?
«Sì, da parte di entrambe c’era una grande voglia di riallacciare il rapporto, che non si è mai interrotto, abbiamo sempre sentito un fil rouge che ci teneva legate: abbiamo sempre continuato a tifare silenziosamente per l’altra, senza mai augurarci del male. Dovevamo superare l’allontanamento, che crea sempre una frattura: avevamo bisogno di un periodo che ci permettesse di guarire per poi riavvicinarsi. Io e Chiara siamo una famiglia, siamo sorelle, ed era inevitabile non distaccarsi mai del tutto. Bisogna accettare che ogni tanto la vita ti allontana e che se una persona non è più felice di fare un certo mestiere è giusto che prenda la vita che vuole. L’importante, ripeto, è perdonare gli errori dell’altro e quelli che hai fatto tu. Rendersi conto che c’è qualcosa di più importante delle scaramucce e delle litigate, qualcosa che non è rapportabile a quello che vuoi preservare, è la chiave di tutto: abbiamo fatto una cosa stupenda insieme, adesso ognuno fa la propria. Io tifo per te e tu tifi per me. Possiamo essere insieme, ma in un altro modo, con altri presupposti».
(Foto in apertura di Paolo Santambrogio. Styliing Masha Brigatti. Make up Joe Sanna. Hair Simone Prusso)