Scappo dalla città: le storie di chi l’ha fatto davvero (ed è felice)
È pur vero che “del doman non v’è certezza”, almeno dai tempi di Lorenzo il Magnifico. Tuttavia, oggi, l’insicurezza è ben più radicata, e tinta di aspettative fosche. La risposta può essere imbozzolarsi nella propria condizione, aspettando che ’a nuttata passi. Oppure, ipotizzare una vita completamente diversa.
Mentre le quotidianità si modificano radicalmente anche nella realtà extra televisiva, con corsi universitari online e persino scuole di musica virtuali, arriva intanto un altro programma che mette in scena chi l’esistenza l’ha cambiata davvero. Scappo dalla città, ideato e condotto da Arianna Porcelli Safonov, dal 9 novembre su laF (Sky 135), racconta in otto puntate le storie di persone che – singole o in coppia – hanno mollato tutto per dedicarsi a una vita bucolica. Il che non significa certo idilliaca.
Arianna – scrittrice, comica, performer – ha 37 anni, è nata a Roma, ha abitato a New York, poi a Madrid. E un giorno, all’improvviso, ha scelto di trasferirsi sull’Appennino, in un borgo di venti anime all’incrocio fra Liguria, Lombardia, Piemonte ed Emilia. Sono sei anni che vive lì, e lavora e scrive in smart working guardando i boschi.
Una decisione ponderata?
«Per niente, l’ho fatto senza stare a ragionarci. A Madrid avevo tutto ciò che desideravo, ma all’improvviso ho sentito il bisogno di farne a meno, di ripulirmi dalla civiltà, come fai con la cache dell’hard disk. Doveva essere un’esperienza in solitaria di un anno per capire se ero in grado di vivere con poco. Invece, dura da sei anni».
Com’è stato l’impatto?
«Sono arrivata in maggio, era il trionfo della natura, meraviglioso. A ottobre mi sono resa conto che per scaldare tutta casa avevo solo un caminetto e che non avevo mai imparato a tagliare la legna con la sega elettrica. Usare l’accetta a quel punto non basta, se hai bisogno di scaldarti in fretta. Così, il primo inverno l’ho passato a spannare i vetri con la manica del maglione».
Tutto da sola?
«Si impara la convivenza con la solitudine, soprattutto in questa stagione. Ho passato Capodanni in solitaria, sentendo in lontananza i fuochi d’artificio. E poi impari che quando arriva l’inverno devi fermarti, rifugiarti».
Oppure, scappare dalla campagna anziché dalla città.
«La “dimensione Ibiza”, un po’ di movida, spesso mi manca. Non passa giorno che non pensi di tornare in città, poi guardo fuori, penso a quello che sta succedendo là…».
C’è qualcosa che accomuna tutti quelli che come lei decidono di darsi alla vita bucolica?
«Se superi la prova del fuoco dei due anni, arriva la consapevolezza. In principio ci si immagina in un bell’agriturismo, come quello dei pranzi domenicali. Non è così. Bisogna affrontare una professione mai fatta prima, con una notevole fatica anche fisica. Senza dimenticare i pregiudizi degli autoctoni: ma questo viene dalla città, che vuole? Però qui nei rapporti umani ho trovato la mia roccia, ancorata alla terra, mentre in città le relazioni sono friabili, ancorate solo a ciò che dobbiamo dimostrare di essere».
Dopo il lockdown, ha visto aumentare i traslochi agresti?
«Ho sentito tantissimi che dicono di voler cambiare vita. Quest’estate mi sono accorta che l’Appennino sta “subendo” una riconquista, molti sono venuti a vedere se si trovava un compromesso per vivere qui e magari lavorare in città. Ma il compromesso a lungo termine non funziona: devi scegliere dove stare, dentro o fuori».
Storie di “fuggitivi”
Miriam, la signora dei bachi. Il suo viaggio è partito da Berlino ed è arrivato in Calabria. In un micro borgo che si chiama San Floro e i cui abitanti non avevano mai visto “stranieri”. «Non mi piaceva come era diventata la mia quotidianità in Germania: lavoro, lavoro, lavoro. E alla fine cosa rimaneva? Il desiderio continuo delle ferie, unico momento buono della mia vita». Miriam ha così mollato l’ufficio commerciale della multinazionale in cui era impiegata, pensando di fare «una tranquilla vita da hippie». Il risultato? Oggi lavora 18 ore, allevando i bachi, da cui trae la seta che poi fila. Recuperati i telai delle anziane del paese, ha aiutato le più giovani a imparare un mestiere e messo su una cooperativa, Nido di seta. Il Covid? «Ho cinque ettari per camminare, la mia spesa è a centimetro zero, e svolgo un lavoro felice».
Luca, il taglialegna. Il paese in cui ha scelto di abitare, scappando dalla Genova dei casermoni in cui era cresciuto, ha un solo abitante: lui. Ma a Luca questo va benissimo: era il sogno della sua vita, così dopo aver studiato agraria si è trasferito. «Della città non mi piace niente: rumore, traffico, zero posteggi…». Meglio le mucche da mungere, la legna da tagliare, l’antico borgo da ricostruire (ma senza vicini). Certo, qualche problema ogni tanto si pone, come quando si è rotto una gamba, il cellulare non prendeva e si è dovuto trascinare per chilometri prima di trovare aiuto. Ma in fin dei conti, poco male. C’è persino una fidanzata, da tre anni. Che per ora però al momento non intende ancora diventare la cittadina numero 2 di Crosi.
Diandra, la cowgirl. Viveva a Milano, dove era riuscita a ottenere un’assunzione a tempo indeterminato. Ma fare la cassiera in un supermercato non andava bene per questa 25enne bionda e all’apparenza fragile. Così, da un giorno all’altro si è licenziata, è scappata dalla città ed è andata in Maremma. Scegliendosi – dopo aver seguito un corso organizzato dalla Regione – una vita da buttera, mestiere molto faticoso, affidato perlopiù a uomini che hanno sotituito i cavalli di un tempo con i motorini. Lei invece non demorde, raccoglie mandrie e doma puledri senza scendere mai di sella. Da vera cowgirl.