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Ноябрь
2020

Dario Argento e Paolo Genovese al Vanity Fair Stories: «La paura di avere paura»

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Ospiti di Vanity Fair Stories, Paolo Genovese e Dario Argento intrattengono un dialogo sul significato più profondo della paura, sui riflessi del lockdown sulle nostre vite e sul futuro ricco di incertezze
L'uccello dalle piume di cristallo (1970)
Il gatto a nove code (1971)
4 mosche di velluto grigio (1971)
Profondo rosso (1975)
Suspiria (1977)
Inferno (1980)
Tenebre (1982)
Phenomena (1985)
Opera (1987)
Trauma (1993)
La sindrome di Stendhal (1996)
La terza madre (2007)
Dracula 3D (2012)

Paura e solitudine, inquietudine e speranza. Sono questi i temi di cui Dario Argento e Paolo Genovese discutono al Vanity Fair Stories, protagonisti di un appassionante confronto moderato da Malcom Pagani. «Dario è il maestro della paura per immagini. Dopo di lui, film di paura così meravigliosi non ne ho più visti», spiega Genovese che, nel numero di Vanity Fair dal titolo Supereroi, ha voluto proprio Argento come penna ospite, autore di un pezzo molto forte dedicato proprio alla paura. «Io francamente ho para della paura. Non sono confortato da nulla in questi momenti così difficili che stiamo passando» spiega Dario Argento in collegamento. «Ho una gran paura non solo di prendere il virus, ma anche che succedano cose orribili e spaventose che non sono neanche vicine ai miei pensieri».

Nei suoi film, Argento «pesca dal suo profondo, dai suoi sogni, dai suoi incubi, dalle sue letture», ma il confinamento imposto per fronteggiare l’emergenza lo ha reso quasi frastornato: «In genere sono sempre stato una persona solitaria. Non mi piace incontrare la gente, è solo restando solo che sento di ritrovare la serenità. Ho anche viaggiato molto da solo, dall’India all Sudamerica: quando sei solo, non hai bisogno di confrontarti con nessun altro se non con te stesso e con il luogo in cui ti trovi. Eppure, nonostante questo, il lockdown mi fa soffrire perché, in questo caso, la solitudine è imposta. Adesso siamo soli perché abbiamo paura del virus, che entri dalle nostre finestre e che ci trascini nel gorgo della sua vigliaccheria. È la stessa sensazione che hanno provato i nostri antenati con la Spagnola. La solitudine così non è felice».

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Dello stesso avviso è anche Paolo Genovese, che alla solitudine ha proprio dedicato un film, Perfetti sconosciuti, che ancora oggi detiene il record di film italiano con più remake nel mondo: «Anch’io come Dario provo la paura di provare quel sentimento difficilmente affrontabile perché è psicologico, scisso dalla realtà e dalla razionalità. Quando ero bambino e facevamo i giochi stupidi, ci dicevano che se di notte, nella stanza buia, dici 10 volte la parola “diavolo”, il diavolo ti appare. Io non ci ho mai provato perché ho paura, è qualcosa di irrazionale. Nel caso della malattia, c’è anche una parte di terrorismo psicologico che temo possa indebolirci: la paura di ammalarti rischia di farti ammalare sul serio». Un po’ di ottimismo, però, è necessario conservarlo: «Il convincimento che tutto ciò sarà superato è fondamentale, altrimenti si rischia di scivolare. Al di là delle persone come Dario che amano la solitudine, questo isolamento forzato può essere utile. Probabilmente questo periodo di solitudine lo rivaluteremo in maniera positiva presto. O, almeno, lo spero».

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Per quanto riguarda le finte apparenze, Dario Argento lancia una bomba che l’amico Genovese gli consiglia di approfondire in un film di prossima fattura: «Sono quasi certo che anche nel nostro ambiente ci siano dei satanisti, persone che credono nel diavolo e fanno le messe nere. È qualcosa che so. Vedi tante persone così garbate e col sorriso e poi, improvvisamente, scopri che fanno parte di una setta diabolica. Sotto l’aspetto di pecore, ci sono dei lupi famelici». Interviene Genovese: «Questo è un soggetto meraviglioso: i satanisti sono i notabili dello spettacolo». La menzogna, invece, è una di quelle dimensioni che divide la produzione filmica dei due registi: se Genovese spiega che la paura di un segreto come quello che conservano i protagonisti di Perfetti Sconosciuti è fortissima, Argento cita Stephen King che, tempo fa, ha spiegato che ogni animo umano possiede una «metà oscura»: «I miei film hanno successo in tutto il mondo perché parlo della metà oscura comune a tutti. Riuscire a guardare dentro la propria metà oscura è un privilegio».

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Non dimentichiamoci, però, un’altra componente indispensabile dell’agire umano: l’autoironia. «Non c’è niente di più serio di non prendersi sul serio. La capacità di volare leggeri sulle cose è fondamentale per vivere bene questo lavoro: se cominci con la sicumera, la presunzione diventa un incubo. La più grande vittoria di questo lavoro è farlo, non è il risultato. È il sogno di tutti, se te lo fanno fare hai vinto. I premi, i David e il box office li vogliamo tutti, ma non prendersi sul serio ti mantiene vivo lo stimolo di fare cose nuove» spiega Genovese. Cosa che Dario Argento condivide appieno, soprattutto pensando che il mestiere del regista, almeno all’inizio, non faceva proprio parte dei suoi piani. Prima c’era il giornalismo, che lo portava a farsi gli spaghetti con il pomodoro e il basilico alle 4 del mattino quando staccava dal giornale; poi la sceneggiatura, e, infine, la regia. «Era bellissimo trovarmi davanti a un foglio bianco, pensare, battere a macchina, raccontare storie. Poi, improvvisamente, mi è piombato sul collo il primo film che mi ha cambiato la vita» chiosa Argento. Il resto, come si dice al cinema, è storia.

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