La cronistoria della causa di Internet Archive, basata su copyright e fair use
Fino a quando è lecito spingersi per utilizzare contenuti protetti dal copyright? Quali sono i limiti a questa disciplina e quando l’interesse culturale, sociale, intellettuale può superare il diritto d’autore? È il concetto di fair use, quello intorno al quale ha ruotato sin dall’inizio la vicenda legale che coinvolge Internet Archive e la sua sezione Open Library, che mette a disposizione degli utenti del web delle copie digitali (in prestito) alcune delle quali coperte dal diritto d’autore. Abbiamo provato a raccontare più volte questa storia e ne abbiamo tracciato le tappe, a maggior ragione adesso che sembra arrivata al suo capolinea: il secondo grado di giustizia che ha dato ragione ai grandi editori americani che avevano fatto causa a una delle colonne dell’internet inteso come servizio libero per il pubblico.
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Fair use nella vicenda di Internet Archive: le tappe
Senza la necessità di risalire ab origine rispetto a quello che ha rappresentato Internet Archive per la storia social recente, basterà riconoscere il suo lavoro nel periodo del coronavirus e del lockdown. Quando milioni di persone non potevano uscire di casa (e quindi non frequentare librerie e biblioteche), Open Library ha svolto un ruolo essenziale per la trasmissione del sapere in quella fase. Se il suo principio cardine era quello di vincolare le copie digitali dei libri a un unico prestito (un utente alla volta), durante il periodo del Covid-19 questo principio era caduto, in virtù dell’emergenza e per favorire l’accesso più libero possibile alla cultura.
Rientrata l’emergenza, Open Library ha continuato a operare come in passato, permettendo il prestito di una sola copia digitale del medesimo libro per consultazione. Tuttavia, il faro delle grandi case editrici (soprattutto americane, soprattutto su iniziativa di Hachette) era già stato puntato: a Open Library veniva contestata la violazione del copyright. Esistono delle opere, infatti, per le quali la copia digitale non è prevista. Internet Archive voleva aggirare questo principio attraverso una propria interpretazione del concetto di fair use.
Open Library, infatti, applicava il principio del Controlled Digital Lending: quando un libro non aveva una copia digitale, veniva acquistato da Internet Archive che provvedeva a effettuare una scansione del testo cartaceo e a metterla a disposizione degli utenti in prestito, assicurandosi di vincolare la copia a una repository univoca (in modo tale da impedire il prestito multiplo). Secondo molti editori, questa pratica viola il copyright, perché – non essendo crittografate le copie – queste potrebbero essere accessibili a terze parti, al di fuori dello schema individuato da Open Library.
È su questo principio che si è basata la prima causa intentata dalle case editrici nel 2020: sulla base dell’interpretazione del concetto di fair use, i giudici di primo grado si erano espressi una prima volta contro Open Library nel 2023. La sentenza definitiva è arrivata a inizio settembre, con l’appello che ha confermato la violazione della grande libreria aperta da Internet Archive. La soluzione, ora, potrebbe essere rappresentata da una nuova definizione del fair use, dal momento che quest’ultima è molto sfumata ed è applicata in maniera diversa a seconda dei casi: la giurisprudenza (anche grazie ad accordi onerosi tra le parti, ad esempio) ha riconosciuto a Google Books il principio del fair use, pur essendo il suo sistema di digitalizzazione dei libri non molto distante da quello di Internet Archive. Ancora una volta, probabilmente, il brand (e i soldi) hanno fatto la differenza, in un sistema giuridico in cui è sufficiente trovare una linea di principio comune per indirizzare una decisione.
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