Precari, demansionati e ora senza lo stipendio: così lo Stato maltratta gli addetti all’Ufficio del processo (a cui chiede di salvare la giustizia)
Precari, demansionati e ora pure lasciati per mesi senza stipendio. Assume contorni sadici il trattamento riservato agli addetti all’Ufficio per il processo (Upp), l’esercito di funzionari reclutati con i fondi Pnrr per velocizzare i tempi della giustizia e abbattere l’arretrato, supportando i magistrati nello studio dei fascicoli e nella stesura dei provvedimenti. Un esperimento in parte già fallito a causa delle condizioni offerte dallo Stato a questi lavoratori, spesso non più giovanissimi: nonostante la qualifica richiesta (laurea in Economia, Giurisprudenza o Scienze politiche) e le enormi aspettative caricate sulle loro spalle, sono stati assunti con contratti a termine della durata massima di due anni e sette mesi, prorogati solo di recente fino a quattro anni e spiccioli per i primi entrati in servizio (febbraio 2022). Ma moltissimi di loro – circa un terzo – nel frattempo avevano già lasciato l’incarico per un impiego più stabile, quasi sempre nella stessa pubblica amministrazione. Così il governo ha dovuto prendere atto del fallimento e rinegoziare al ribasso con Bruxelles il target di assunzioni da raggiungere entro il 30 giugno 2024, abbattuto da 19.719 a diecimila. Per centrarlo, ad aprile è stato bandito un nuovo concorso, vinto da 3.352 laureati che hanno preso servizio lo scorso 21 giugno e da allora lavorano negli uffici giudiziari di tutta Italia. O forse sarebbe meglio dire che fanno volontariato: a quasi tre mesi dall’assunzione, infatti, la maggior parte dei nuovi ufficiali del processo non ha ancora visto un euro di paga.
Il ministero in tilt – Il motivo, come spesso accade, è burocratico: l’infornata di nuovi assunti ha mandato in tilt il ministero della Giustizia, che non è ancora riuscito ad aprire le loro posizioni stipendiali su NoiPa, la piattaforma su cui vengono gestiti in maniera informatizzata i processi amministrativi relativi al personale. “L’elevato numero di dipendenti ha determinato un eccezionale lavoro in termini di registrazione dei contratti e verifiche amministrativo-contabili nonché elaborazioni tecniche finalizzate all’inserimento dei dati da fornire al sistema NoiPa per la successiva meccanizzazione massiva. A oggi tale complessa attività è in fase di conclusione”, fa sapere via Arenula con una nota diffusa in risposta alle richieste di chiarimenti del fattoquotidiano.it. E promette che “lo stipendio verrà pagato nel mese corrente con rata urgente, a parte alcune posizioni per le quali sarà necessaria una ulteriore verifica”. Si tratta della prima comunicazione formale sul tema arrivata dagli uffici romani, che finora avevano fatto scena muta di fronte alle valanghe di mail e pec arrivate dagli addetti Upp senza retribuzione. Sul loro gruppo Facebook fioriscono decine di post tutti uguali: “Voi avete ricevuto lo stipendio?“, “Quando ci pagheranno?”. Qualcuno invita a rassegnarsi (“Nella pubblica amministrazione funziona così”), mentre altri, più combattivi, ipotizzano di mettere in mora il ministero e adire le vie legali.
“Impossibile avere un fido in banca” – Anche perché non tutti possono permettersi di restare a lungo senza entrate. “La situazione è drammatica. Siamo costretti a lavorare gratuitamente sobbarcandoci tutti quei costi della vita che, senza uno stipendio, sono impossibili da sostenere“, ci racconta C., trent’anni, chiedendo l’anonimato. “Ho tentato di chiedere un fido in banca per andare avanti e permettermi di pagare la benzina e il nido per mia figlia, ma dato che non ci sono entrate non è nemmeno possibile accedere a forme di credito. Essendo entrati in servizio a giugno, gli unici nidi disponibili durante l’estate sono privati, con rette che si aggirano intorno agli 800 euro mensili. E poi ci sono tutte le altre spese di vita quotidiana. Mi chiedo, come sia possibile che tutto ciò avvenga nel silenzio delle istituzioni? Non ci è arrivata nemmeno una comunicazione ufficiale per avvertirci che ci sarebbero stati ritardi. Se il datore di lavoro insolvente fosse un privato, ci sarebbero state conseguenze legali non di poco conto. Perché invece lo Stato, e in particolare il ministero della Giustizia, può permettersi di congelare i diritti dei propri dipendenti impunemente?”, si chiede.
“Demansionamenti e mobbing all’ordine del giorno” – “Sono una ragazza di 28 anni che vive da sola e deve mantenersi pagando spesa e bollette, nonché i mezzi di trasporto per recarmi a lavoro, ben ottanta chilometri tra andata e ritorno”, ci dice invece A.. Sottolineando anche altri aspetti frustranti della sua esperienza, condivisi da vari colleghi: “Ormai sono mesi che lavoriamo e alcuni di noi non hanno neanche i pc o le postazioni. A causa della carenza di personale ci stanno utilizzando come sostituti degli assistenti giudiziari, mandandoci in udienza a verbalizzare, lavoro che non compete a noi. I demansionamenti sono all’ordine del giorno, così come il mobbing dei colleghi più anziani. Alcuni di noi, poi, formalmente sono Upp ma di fatto svolgono altri ruoli (ad esempio cancelleria), falsando tra l’altro anche i dati del Tribunale”. D., invece, faceva l’avvocato da oltre 15 anni e per prendere servizio all’ufficio del processo è stato costretto a sospendersi dall’albo, vista l’incompatibilità prevista dalla legge. Quindi, racconta, “le entrate attuali sono pari a zero. Peccato che le spese vadano pagate, invece, eccome. Specie quando c’è di mezzo anche un figlio di due anni, che ora ha bisogno tra l’altro dei vestiti per l’autunno. Contattando il ministero della Giustizia mi sono sentito dire: “Abbiamo fatto diecimila assunzioni, dovete avere pazienza”. Beh, quella non manca. È il denaro che è finito”, si sfoga.
“Discriminazione economica” – Riflessioni condivise da S., trent’anni, in servizio in un Tribunale del Piemonte. “Io mi chiedo: è veramente normale non essere pagati per mesi, mentre si attendono “i tempi tecnici” perché il ministero possa organizzarsi? In qualsiasi contratto la puntualità nell’adempimento delle obbligazioni è fondamentale. Io vengo a lavoro ogni giorno, tu mi paghi ogni mese. Se io non venissi a lavorare un mese o più, senza neanche comunicarlo, perché necessito di tempi per organizzarmi, ad esempio per trovare una casa adatta alle mie esigenze, spostare la mia vita da una parte all’altra dell’Italia eccetera, tu, Pubblica amministrazione, non prenderesti seri provvedimenti nei miei confronti, fino al licenziamento per giusta causa? Penso che la risposta sia ovvia”. “In tutto questo, mi sento di parlare da privilegiata. Perché, pur non avendo risparmi da utilizzare per tamponare questo periodo di mancanza di liquidità, ho una famiglia che, con un amore e una pazienza infinita, continua a sostenermi economicamente. Ma deve essere obbligatorio per poter lavorare nella Pa? Queste situazioni creano discriminazioni su basi economiche, non solo ingiuste, ma contrarie al principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione”.
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