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Omicidio Piersanti Mattarella, la pista mafiosa non basta per cancellare le responsabilità nere

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Le novità investigative sull’uccisione di Piersanti Mattarella, nate su impulso di una lettera anonima, potrebbero contribuire a chiarire alcuni aspetti di quel delitto politico ma non a chiuderlo definitivamente.

Ci auguriamo che la procura di Palermo possa ridefinire più solidamente di quanto non sia stato possibile in passato il contributo della mano mafiosa all’operazione del 6 gennaio 1980: diversi pentiti – Buscetta, Mannoia, Mutolo, Di Carlo – hanno parlato di Nino Madonia, il boss oggi incriminato insieme a Giuseppe Lucchese, come il killer di Mattarella ma con dichiarazioni contraddittorie e sempre de relato. Dichiarazioni che forse hanno contribuito ad alleggerire la pressione investigativa sulla “pista nera” del delitto che, sebbene abbandonata a sé stessa, resta tra i più lucidi contributi di Giovanni Falcone nella descrizione del potere italiano degli anni 80 del secolo scorso.

Sebbene assolti in via definitiva, e non più incriminabili, moltissimi elementi restano lì fermi ad accusare Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini come esecutori materiali, oltre che a raccontare le trame che intrecciano interessi mafiosi e neofascisti, forse facilitati dalla mediazione massonica.

Non sappiamo, dunque, quale fu la dinamica dell’operazione ma sappiamo che l’uccisione di Mattarella fu una scelta politica: liquidò una esperienza di rinnovamento dell’isola davvero importante e maturò in un contesto politico ben più ampio di quello mafioso. Il terrorismo neofascista si rese co-protagonista in quegli anni del disegno reazionario di stampo piduista volto a stoppare ogni tentativo di una svolta riformista del governo del Paese.

Il punto oggi è che sarebbe estremamente grave se gli eventuali sviluppi di una pista mafiosa venissero utilizzati da alcuni ambienti politici per azzerare le responsabilità nere, soprattutto alla vigilia di importanti appuntamenti giudiziari che riguardano le stragi di Bologna e di Brescia.

Occorre contrastare questa deriva, anche riaccendendo il dibattito pubblico e ricordando l’incredibile ricostruzione investigativa di Falcone che affidò il suo lavoro anche alle valutazioni esperte di Loris D’Ambrosio che aveva ereditato alla Procura di Roma tutte le grandi inchieste sui gruppi neofascisti svolte dai due magistrati Vittorio Occorso e Mario Amato: il primo ucciso da Pieluigi Concutelli, uomo forte del neofascismo in Sicilia, il secondo da Gilberto Cavallini, fuggito su una moto guidata da Luigi Ciavardini. Storie che gli attuali esponenti della destra tendono a dimenticare.

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