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Trump “il pacificatore” in Ucraina e Medio Oriente. “Incontrerò presto Putin”. E Hamas riconosce a lui la fine della guerra a Gaza

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Nel suo ultimo show prima del giuramento ha promesso di mettere la parola fine alle guerre che stanno consumando Ucraina e Medio Oriente. Promesse che ora, in qualità di presidente in carica, Donald Trump dovrà dimostrare alla prova dei fatti. “Misureremo i nostri successi non solo sulle battaglie che vinciamo ma anche sulle guerre a cui metteremo fine, guerre, forse cosa più importante, in cui non siamo mai entrati”, ha detto nel suo discorso di insediamento. “La mia più orgogliosa eredità sarà quella di pacificatore e unificatore, questo è quello che voglio essere”, ha poi aggiunto, affermando l’intenzione di costruire “l‘esercito più forte che abbiate mai visto”. Grazie alla “nostra potenza, fermeremo tutte le guerre e porteremo un nuovo spirito di unità a un mondo che è arrabbiato, violento e totalmente imprevedibile”.

Il conflitto in Ucraina – Poco dopo l’ingresso nello Studio Ovale, Trump è entrato nel merito, partendo da Kiev. Un conflitto nel quale gli Stati Uniti hanno riversato finora centinaia di milioni di dollari di aiuti militari. “Senza un accordo” sulla guerra in UcrainaPutin distruggerà la Russia“, ha dichiarato dallo Studio Ovale, aggiungendo che “Zelensky mi ha detto che vuole un accordo” e che “la guerra con l’Ucraina e la Russia non avrebbe mai dovuto iniziare”. Ieri intanto, poco prima del giuramento, da Mosca sono arrivate le congratulazioni al nuovo presidente americano, che ha assicurato che “parlerà molto presto” con Putin anche se non sa ancora quando, e ribadito che la guerra in Ucraina “deve finire”. Secondo Cnn, Trump sarebbe già passato ai fatti ordinando ai suoi collaboratori di organizzare una telefonata con il capo del Cremlino nei prossimi giorni con l’obiettivo di discutere la possibilità di un incontro nei prossimi mesi. Archiviata la promessa elettorale di mettere fine al conflitto in Ucraina “entro 24 ore”, il tycoon punterebbe dunque sui tempi medi – anche se dallo Studio Ovale ha dichiarato di avere ancora “mezza giornata” per raggiungere l’obiettivo -, ma necessariamente attraverso contatti diretti con lo ‘zar’. Il quale gli risponde di essere pronto, con le parole e con i gesti simbolici. Per quanto i toni adesso siano da luna di miele, verrà, probabilmente, la stagione dei negoziati, con la pazienza e le fatiche che richiedono. La Russia ha infatti ribadito più volte negli ultimi mesi di volere puntare agli obiettivi stabiliti da Putin lo scorso giugno, che difficilmente l’Ucraina potrebbe accettare: annessione di tutto il territorio delle quattro regioni ucraine finora occupate parzialmente (Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson) e rinuncia ufficiale di Kiev ad entrare nella Nato. Ma Zelensky si è detto convinto che Trump riuscirà ad imporre al leader russo una soluzione più favorevole all’Ucraina, perché “ha abbastanza potere per fare pressioni su Putin“. Tra queste pressioni potrebbe esservi un ulteriore inasprimento delle sanzioni sul petrolio russo, secondo quanto detto da Scott Bessent, nominato da Trump alla carica di segretario al Tesoro.

Gaza: sfiducia nell’accordo, via le sanzioni ai coloni israeliani. E Hamas riconosce il ruolo dell’inviato di Trump – Passando invece allo scenario mediorientale, Trump inizia a definirlo prendendo le distanze: “Non è la nostra guerra, è la loro guerra. Ma io non ho fiducia” nell’accordo sul cessate il fuoco, avviato domenica con la liberazione di 3 ostaggi israeliani e di 90 palestinesi. Ha riconosciuto che Hamas sia stata “indebolito” dal conflitto, ma che Gaza è ridotta a un “enorme sito di demolizione”. Per la Striscia intravede poi la possibilità di un “piano fantastico” per la ricostruzione, perché “è in una posizione fenomenale sul mare, il clima è fantastico. Sapete, tutto è perfetto. Si potranno fare delle cose meravigliose in questo posto”, ha detto. Dal movimento islamista arrivano intanto importanti segnali di apertura verso gli Stati Uniti: la leadership politica di Hamas, per voce dell’alto funzionario Mousa Abu Marzouk, si è detta pronta al dialogo con gli Usa e riconosce a Trump, che definisce un “presidente serio”, il merito di aver “messo fine” alla guerra nella Striscia di Gaza. “Se non fosse stato per lui, per la sua insistenza nel porre fine alla guerra e per l’invio di un rappresentante decisivo, l’accordo non si sarebbe mai concretizzato”, ha affermato Abu Marzouk parlando al New York Times e riferendosi al nuovo inviato americano in Medioriente, Steve Witkoff. ”Il merito di aver posto fine alla guerra spetta a Trump”, ha aggiunto. Abu Marzouk sottolinea quindi che Witkoff è il benvenuto a Gaza. “Può venire a vedere la gente e cercare di capire i loro sentimenti e desideri in modo che la posizione americana possa basarsi sugli interessi di tutte le parti, e non solo di una parte”, ha aggiunto. Per quanto Hamas guardi favorevolmente alla sua entrata in carica, la creazione di uno Stato palestinese non è tra le priorità di Trump, che ha anche deciso di revocare le sanzioni che la precedente Amministrazione Biden aveva imposto sui coloni israeliani in Cisgiordania. Tra gli elementi abrogati del lungo elenco figura l’Ordine esecutivo 14115, emesso il primo febbraio del 2024, che autorizzava l’imposizione di determinate sanzioni ai gruppi di coloni israeliani “sulle persone che minano la pace, la sicurezza e la stabilità in Cisgiordania“. Biden aveva spiegato di aver imposto le sanzioni in quanto “gli alti livelli di violenza dei coloni estremisti, gli sfollamenti forzati di persone e villaggi e la distruzione di proprietà” avevano “raggiunto livelli intollerabili e costituiscono una seria minaccia per la pace, la sicurezza e la stabilità della Cisgiordania e di Gaza, di Israele e della più ampia regione del Medio Oriente”. Contro la decisione di Trump è però intervenuto il ministero degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), che ha messo in guardia contro quelli che ha definito “i tentativi di far esplodere la situazione nella Cisgiordania occupata, alla ricerca di giustificazioni per copiare i crimini di genocidio e sfollamento commessi da Israele nella Striscia di Gaza, e trasferirli in Cisgiordania”. Nella dichiarazione, citata da Al-Jazeera, il ministero denuncia il “caos violento” degli “attacchi brutali” dei coloni.

La strategia per il Medio Oriente – Il rimodellamento della regione a cui pensa la nuova amministrazione americana, mira a un cambiamento netto per la regione, che dia più sicurezza ad Israele e isoli definitivamente l’Iran. La concomitanza – non casuale, ma fortemente voluta anche dal tycoon – della tregua a Gaza e dell’insediamento regala plasticamente una chiave di lettura importante di come quest’area del mondo sarà tra le priorità della politica estera del nuovo presidente americano. Sarà così perchè dal Medio Oriente allargato passano molti interessi americani e perchè una stabilità regionale garantirà a Trump libertà di movimento in altri teatri strategici. Trump ripartirà da dove aveva lasciato quattro anni fa, consapevole però che il 7 ottobre e le successive guerre a Gaza e in Libano, gli attacchi tra Israele ed Iran e la caduta di Assad in Siria hanno stravolto il Medio Oriente e reso tutto più difficile. Ma anche se la strada sarà più tortuosa, gli obiettivi rimangono quelli: appoggiare Israele con forza e determinazione e mettere in un angolo l’Iran.

Si riparte quindi dagli accordi di Abramo, la strategia con cui Trump ha avvicinato Israele ai Paesi arabi sunniti, in chiave anti sciita, anti Teheran. È ampiamente riconosciuto che uno degli effetti collaterali dell’attacco del 7 ottobre è stato quello di bloccare il dialogo fra Riad e Tel Aviv. Qualcuno pensa anche che questo fosse uno degli obiettivi principali dell’Iran, sponsor politico, protettore economico e fornitore militare di Hamas.
Israele aveva già concluso accordi – tra gli Stati del Golfo – con gli Emirati Arabi Uniti e con il Bahrein. Il successivo, decisivo e storico passo per un’intesa con l’Arabia Saudita sembrava davvero possibile, Poi è arrivato il 7 ottobre. Tel Aviv e Riad sono sostanzialmente favorevoli a riprendere il discorso per arrivare alla firma dell’accordo. Ma ci sono alcuni passaggi che, nella situazione attuale, diventano obbligati. Fra questi c’è la richiesta saudita per un qualche tipo di riconoscimento di uno Stato palestinese. Questo sarà un nodo molto difficile da sciogliere, se in Israele rimarrà l’attuale governo che non crede più da tempo alla soluzione di due Stati e due popoli e dove Netanyahu deve fare i conti con la destra religiosa che vuole occupare Gaza e conquistare altri territori anche in Cisgiordania.

Questo è il nodo che Trump dovrà sciogliere se vuole attuare il piano che ha in mente per questa regione che ha l’obiettivo finale di mettere definitivamente fuori gioco l’Iran e garantire un forte appoggio americano ad Israele attraverso una serie di nuove alleanza regionali di cui l’America sarà garante. La pax americana servirà anche a tenere lontane le mire cinesi e russe verso il Medio Oriente, che siano economiche e commerciali, nel caso di Pechino, o che siano politiche e militari, nel caso di Mosca. Va ricordato che l’Iran ha appena firmato un accordo strategico con la Russia e che i droni iraniani hanno un ruolo importante nella guerra in Ucraina. Non sarà facile. La tregua in atto è molto fragile e il percorso per la seconda e terza fase molto complesso. Hamas non si arrenderà. L’Anp è debole. Il governo israeliano è diviso. La rabbia sembra ancora prevalere sul desiderio di pacificazione. La costruzione della nuova era Trump non solo passa da qui, ma qui troverà una delle prove più difficili.

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