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Il Trump 2 incontrerà pochissima resistenza: è ora che l’Europa faccia sentire la sua voce

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Se ancora alla vigilia si poteva facilmente pronosticare che “la resistenza” al Trump 2 sarebbe stata “più labile” rispetto a quella incontrata durante la precedente presidenza, dopo aver assistito all’investitura e al discorso tenuto nella maestosa sala presa d’assalto dai suoi seguaci il 6 gennaio di 4 anni fa, si può prevedere che potrebbe essere inesistente. Difficile intravedere i volti e individuare i profili di oppositori e critici credibili, insensibili alle lusinghe come alle minacce, o anche solo timorosi di trovarsi marginalizzati o esclusi dall’eden pianificato dalla riconquista trumpiana.

Quello a cui si è assistito, già all’indomani del voto, va ben oltre il collaudato e quasi inevitabile opportunismo pro-governativo in termini di concentrazione di potere e conflitto di interessi. Si tratta dell’esaltazione e dell’esibizione di un esasperato capitalismo clientelare e del trionfo incontrastato di un regime oligarco-monopolistico rispetto al quale la deregulation reaganiana appare oggi un modello di moderazione.

In primissima fila, ad evidenziare la sinergia con il “nuovo” Trump che ha realizzato la scommessa impossibile della seconda presa di Capitol Hill sulle “ali del voto popolare”, il dioscuro Elon Musk insieme alle divinità dell’Olimpo tecnologico allineate a velocità supersonica, con lo zelo dei neo-convertiti: Mark Zuckerberg (Facebook-Meta), Jeff Bezos (Amazon, Washington Post), Sundar Pichai (ad di Google e Alphabet).

Alla cerimonia più pomposa e costosa di sempre (tra i 170 e 250mila dollari) per l’insediamento del super uomo che vuole rimodellare il mondo con 14 multimiliardari nello staff governativo (Putin docet), non poteva mancare nemmeno il capo di TikTok con cui il duo Trump-Musk, al netto del teatrino precedente, intende spartirsi la torta alla faccia delle ingerenze cinesi e della sicurezza nazionale.

Quello che doveva essere il solenne discorso alla nazione per “la rinascita” è stato valutato da vari osservatori, divenuti più concilianti dopo la vittoria, come più positivo e meno cupo di quello di otto anni fa. Ma è stato in sostanza per Trump il comizio della riscossa e non solo per aver incassato a differenza della prima volta il voto popolare.

Oggi l’ex outsider sa di aver con sé il partito repubblicano divenuto Maga e sa di poter realizzare il suo programma grazie al docile allineamento di poteri che allora gli erano manifestamente ostili. Così l’offensiva della sfilza di ordini esecutivi che ingombrano ostentatamente la sua scrivania è partita con il tempismo annunciato.

L’età dell’oro che deve restituire all’America il suo primato offuscato dall’amministrazione fallimentare e “corrotta” di chi l’ha preceduto deve iniziare con il ripristino della “sicurezza negata ai cittadini onesti” e per realizzarla non basta blindare il confine con il Messico e rimpatriare tutti gli irregolari. Ci vogliono anche misure più emblematiche e cupamente dimostrative per rassicurare un elettorato che, testuale, gli avrebbe dato “un mandato per capovolgere totalmente l’orribile tradimento subito da tutti noi restituendo ai cittadini fiducia e benessere, libertà e democrazia”. E l’uomo, che si ritiene il salvatore dell’America dall’inesorabile declino causato da Biden&Co, ha inserito tra i primi decreti esecutivi, con cinismo e sprezzo del buon senso prima che della giustizia, misure inique e tra loro incompatibili.

Come possono conciliarsi il ripristino della pena di morte federale concepita agli albori degli Usa, oggetto della moratoria di Biden nel 2021, con l’impunità concessa grazie ai 1500 “perdoni” a tutti gli eversori di Capitol Hill, non solo quelli che hanno devastato il simbolo della democrazia ma anche quelli colpevoli di violenze e aggressioni contro la polizia?

Ma per materializzare la sua “Giustizia giusta” il rilancio della pena di morte elevata a sanzione identitaria della nuova America, insieme alla liberazione degli “ostaggi del 6 gennaio” equiparati senza vergogna a quelli di Hamas, non bastavano. Così si è aggiunta anche la grazia per un ergastolano di “rango” come Ross Ulbricht, definito dai giudici “il boss di un’impresa mondiale di traffico di droga digitale” oltre che di armi, documenti falsi, operazioni di riciclaggio nonché amante delle criptovalute altrettanto apprezzate, con enorme profitto, dal suo liberatore.

Nel discorso-comizio di insediamento Trump non ha esitato a definirsi il nuovo “stupor mundi” nonché “pacificatore ed unificatore” in riferimento alle guerre che lui farà terminare e in cui gli Usa non si faranno coinvolgere: esattamente il contrario del suo predecessore che “ha stanziato fondi illimitati per i confini esterni ma non per quelli interni”. Un messaggio di disimpegno più o meno ribadito all’Europa e all’Ucraina.

E sarebbe la conferma abbastanza prevedibile che il suo modus operandi per “imporre la pace con la forza” sarà improntato alla mancanza di equità e di senso di giustizia che sta dimostrando in politica interna: forte con chi è più debole e debole con chi è più forte.

Il primo banco di prova è vedere se l’intenzione dichiarata da Trump di limare le pretese di Putin con sanzioni e dazi per arrivare a una soluzione del conflitto è solo una sparata o ha un fondamento; e se l’ennesimo appello di Zelensky a Washington perché non venga meno il sostegno americano in un momento altamente critico troverà ascolto. L’Europa, che Zelensky vorrebbe al tavolo negoziale, a questo punto dovrebbe aver capito che deve pensarsi come un soggetto politico e “fare sentire la sua voce” quanto più avverte come minacciose le incognite del ciclone Trump, per ora incontrastato.

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