“Attenzione ai cinturini di famosi smartwatch e smartband, contengono Pfas: ecco cosa si rischia”. L’allarme nel nuovo studio dai risultati “preoccupanti”
“Molti cinturini di smartwatch e smartband vengono pubblicizzati per il contenuto di fluoroelastomeri, un tipo di gomma sintetica ideata per resistere agli oli della pelle e al sudore”, esordiscono gli autori dello studio pubblicato su Ecotoxicology and Public Health. A caccia di PFAS nel cinturino, i ricercatori dell’americana University of Notre Dame hanno esaminato 22 prodotti di quattro marche: Nike, Apple, Fitbit e Google. Quindici dei 22 prodotti esaminati – ma non viene detto quali sono – hanno mostrato di contenere livelli inattesi di PFAS, i temibili “inquinanti eterni”, sospetti interferenti endocrini, associati con alcuni tumori, malattie epatiche e renali, problemi alla tiroide e al sistema immunitario, obesità, difetti congeniti; sono a rischio soprattutto le persone fragili, come i bambini e le donne incinte.
Risultati preoccupanti
Graham Peaslee, ricercatore e co-autore dello studio, ha spiegato al Guardian che i risultati sono preoccupanti, perché i livelli di PFAS rilevati sono molto più alti di quelli osservati in altri beni di consumo e abiti; inoltre i cinturini restano premuti a lungo sul polso e, secondo lo studio, l’assorbimento attraverso la pelle potrebbe essere “una fonte significativa di esposizione” a tali sostanze. Non è ben chiaro quale sia il ritmo di penetrazione, ma una ricerca di giugno – citata nello studio – ha riscontrato un tasso di assorbimento del 60% per una crema con PFAS testata su un modello di pelle umana. Preoccupa poi il fatto che smartwatch e smarband vengano tenuti a lungo sul polso, e alcuni prodotti siano utilizzati anche per fare sport, con conseguente aumento del sudore: quest’ultimo, secondo le ricerche, è in grado di aumentare il tasso di assorbimento degli PFAS, probabilmente facilitato anche dal fatto che i pori sono aperti.
La sostanza chimica più rappresentata nei cinturini è risultata essere il PFHxA, o acido undecafluoroesanoico, trovato nel 40% dei prodotti. Si tratta di un sottogruppo di sostanze collegate a problemi epatici e più difficili da individuare nel sangue rispetto ad altri PFAS. Sono impiegate in imballaggi alimentari come scatole per pizze, spray impermeabilizzanti e giubbotti antipioggia, cosmetici. Dallo scorso ottobre, nella UE ne è stato limitato l’impiego, ma la disposizione sarà operativa dopo un periodo di restrizione compreso tra 18 mesi e 5 anni, a seconda dell’uso. L’altra sostanza maggiormente rappresentata nei cinturini è il PFOA, o acido perfluoroottanoico, inserito dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro nella classe 2B (possibilmente cancerogeno per l’uomo).
Come sapere se il nostro è uno dei cinturini a rischio? Occhio al fluoroelastomero
L’etichetta può fornire indicazioni utili, perché alcuni produttori riportano la presenza di PFAS nel cinturino. Altri non la dichiarano, ma in ogni caso va controllato il termine “fluoroelastomer band”, bracciale di fluoroelastomero, segnale della presenza di PFAS. Si tratta di una gomma sintetica capace di resistere molto bene al calore, alle macchie, ai grassi e al sudore, e quindi non a caso tanto usata nei cinturini. Secondo lo studio, i prodotti contenenti PFAS erano tra quelli che costavano 50 dollari più degli altri. Per cercare di evitare i PFAS, si può puntare su bracciali di silicone o di gomma naturale.
Tuttavia, in generale non è facile sfuggire a questi inquinanti ubiqui, diffusi ormai dagli anni ‘50: le sostanze alchiliche perfluorurate e polifluorurate sono infatti un ampio gruppo di prodotti di sintesi che, a seconda delle classificazioni, possono comprendere fino a 10.000 composti. Per la loro resistenza ad acqua, grassi, macchie e calore, conoscono enormi impieghi in campo industriale: si trovano perfino nella carta da forno, nei farmaci, nei cosmetici, nei fili interdentali e in tantissimi altri prodotti di uso quotidiano. Estremamente persistenti e capaci di accumularsi con il tempo, “una volta dispersi nell’ambiente i PFAS possono finire ovunque in natura e, con l’acqua e il cibo, anche sulle nostre tavole”, denuncia Greenpeace. E anche nell’organismo umano, come dimostrano gli studi. È quindi quanto mai urgente la necessità di mettere al bando i PFAS sostituendoli con alternative più sane.
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