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L’indagine sulle sanzioni Usa: peggiorano la vita ai cittadini e ingrassano lobbisti e studi legali

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Sanzioni, sanzioni e ancora sanzioni. Che scopo hanno? Che risultati ottengono? Chi ci guadagna? Chi ci rimette? Una lunga indagine pubblicata nel corso dell’ultimo anno dal Washington Post ha cercato di fare il punto sull’argomento. Considerando le amministrazioni degli ultimi quattro presidenti degli Stati Uniti (Bush, Obama, Trump e Biden) il governo americano ha imposto sanzioni finanziarie, sotto varie forme, su persone, proprietà o organizzazioni, ad un terzo di tutti gli altri paesi del mondo, nonostante l’inesistenza di prove che ne dimostrino l’efficacia nell’influenzare la politica delle nazioni prese di mira.

Succede che le sanzioni manchino il bersaglio, peggiorando le condizioni di vita di milioni di persone senza scalfire gli interessi di chi detiene il potere, spiega il Post citando i casi di Guatemala e Venezuela: il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti impose sanzioni alle miniere di nichel del Guatemala nel novembre 2022. Da decenni, i processi estrattivi andavano a braccetto con abusi sui dipendenti, inquinamento dell’ambiente, sfratto violento dei gruppi indigeni dalle loro terre e corruzione di funzionari governativi per sfuggire alle conseguenze. Le sanzioni economiche non hanno però migliorato la situazione dei lavoratori mentre sono costate a migliaia di loro uno stipendio sicuro.

In Venezuela le cose non sono andate meglio: le sanzioni sono arrivate quando la crisi economica nel paese era già gravissima ma, scrive il Post, nonostante gli avvertimenti dei funzionari del Dipartimento della Sicurezza Interna e i rapporti riservati sui potenziali effetti di queste sanzioni sull’emigrazione, l’amministrazione Trump ha soffocato la principale fonte di entrate del paese, proveniente dalle esportazioni di petrolio. Più di 7 milioni di venezuelani hanno ormai lasciato il loro paese in seguito alla crisi economica, sociale e politica. Molti si sono stabiliti in Colombia, in Perù o in Cile ma, dopo qualche anno, questo numero enorme di immigrati ha provocato reazioni xenofobe nei loro confronti, spostando la corrente migratoria verso gli Stati Uniti.

Attualmente, mentre Maduro è ancora al potere in Venezuela, le vittime collaterali della guerra delle sanzioni, in attesa di entrare negli Stati Uniti, hanno appreso, pochi giorni fa, della decisione del neopresidente Trump di chiudere l’app Cbp One, utilizzata per gestire gli appuntamenti per i permessi di ingresso legale negli Stati Uniti, e di annullare gli appuntamenti già fissati.

Succede che le sanzioni ottengano effetti opposti a quelli sperati: in Iran non sono servite a spodestare il regime teocratico, ma sono state all’origine di alleanze con Russia e Cina, che hanno creato reti commerciali e finanziarie alternative e rivali di quelle occidentali.

E poi succede che almeno qualcuno ci guadagni, perché, scrive il Post, le sanzioni hanno generato, a Washington, una nuova industria di lobbying. Dall’estero una valanga di denaro direttamente proporzionale all’aumento del numero di sanzioni, è affluita nelle casse di ex legislatori e collaboratori di entrambi i partiti che hanno messo a frutto la loro esperienza passata e le loro connessioni ad alto livello nel governo americano. I regimi accusati di violazioni dei diritti umani si sono rivolti ad ex membri del Congresso per chiedere aiuto con le sanzioni. Tanto per fare qualche esempio, ci sono oligarchi del Cremlino, aziende tecnologiche cinesi, un trafficante d’armi serbo che hanno assunto lobbisti per cercare di ridurre le sanzioni economiche o anche di farne imporre ai propri concorrenti. E non basta, perché le aziende spendono ancora di più per le pratiche di compliance, cioè per riuscire a conformarsi alla normativa che regola le sanzioni, impegno che in genere comporta una consulenza professionale.

Mentre chi svolge una vera e propria attività di lobbying è tenuto a rendere noti i propri interventi al Dipartimento di Giustizia, gli ex funzionari governativi che offrono pareri e consulenze legali non hanno l’obbligo di presentare rapporti. Il Post cita le parole di James S. Henry, ex capo economista della McKinsey e fellow del Global Justice Program della Yale University: “Gli studi legali più sofisticati e più pagati del mondo lavorano tutti per i cattivi e questo ha creato un sistema contrario all’applicazione imparziale delle sanzioni”. Tanto che qualcuno comincia a chiedersi se, di questo passo, la politica estera degli Stati Uniti potrà essere modellata dal miglior offerente.

L'articolo L’indagine sulle sanzioni Usa: peggiorano la vita ai cittadini e ingrassano lobbisti e studi legali proviene da Il Fatto Quotidiano.




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