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Trump, prove di monarchia: imprime lo stemma di famiglia (rubato) sulle monete presidenziali

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Narrano gli storici come, dopo aver illuminato il mondo con la celeberrima frase (“…all men are created equal…”) che nel 1776 aprì la Dichiarazione di Indipendenza e dopo aver militarmente sconfitto l’Impero di Sua Maestà Britannica a Yorktown nel 1781, proprio questo – il ritorno di un re – fosse il più ricorrente timore dei “padri fondatori” della nuova Repubblica. Tanto che proprio aspirare alla reintroduzione di forme di monarchica maestà neppur troppo aggiornate fu la principale accusa che nel 1800, in quella che viene considerata la prima vera elezione “competitiva” della Storia degli Stati Uniti d’America, Thomas Jefferson lanciò contro John Adams, candidato rivale e presidente uscente. Il quale, va ricordato per dovere di cronaca, agli attacchi aveva da par suo risposto con pari veemenza, rinfacciando a Jefferson presunte (molto presunte) simpatie “giacobine”.

Gli anni che seguirono ampiamente dimostrarono come Adams non avesse, in realtà, alcuna ambizione dinastica (anche se in effetti suo figlio, John Quincy, divenne poi un quarto di secolo più tardi il sesto presidente della Nazione). E come ben poco in comune, al di là d’una condivisa e illuministica avversione per l’ancien regime, vi fosse tra Thomas Jefferson (che in quanto ambasciatore in Francia tra il 1785 e il 1789 era stato diretto testimone della caduta di Luigi XVI) e il Maximilien Robespierre del Comitato di Salute Pubblica. Dopotutto il primo non ha mai mandato nessuno – né da nessuno mai è stato mandato – alla ghigliottina; e il secondo mai è stato, come fu Jefferson, un proprietario di schiavi. Quello che la campagna elettorale del 1800 andava proponendo, nel suo scontro tra i Democratic-Repubblicans di Jefferson e i Federalists di John Adams (e ancor più di Alexander Hamilton), era in realtà la contrapposizione tra la “classica” e “virtuosa” idea d’una repubblica fondata sulla piccola e diffusa proprietà terriera e una federazione di Stati sorretta da un governo centrale forte quanto bastava per spingere la nuova Nazione sul carro dell’arrembante rivoluzione industriale, adeguandone le strutture alle implacabili esigenze del nascente capitalismo.

Inutile a questo punto ricordare quali delle due parti abbia nel tempo prevalso. Molto utile invece è notare come oggi – ben 225 anni più tardi e in tempi di turbo-capitalismo trionfante – sia prepotentemente riemerso il pericolo del “ritorno alla monarchia” che i ”founding fathers” tanto temevano. E questo non solo nel senso d’uno scivolamento verso un regime alla democrazia ostile o, addirittura, estraneo, ma decisamente ispirato – oggi ancora prevalentemente nella forma, domani chissà – proprio alle regole dell’assolutismo monarchico. Quello, per intenderci, del “governo per diritto divino”.

Al centro di questo processo – appena è il caso di sottolinearlo – si trova Donald J. Trump, lo scorso 5 novembre per la seconda volta democraticamente e inequivocabilmente eletto presidente degli Stati Uniti d’America. Democraticamente per l’ovvia ragione che ha conquistato la maggioranza del voto popolare oltre che – come nel 2016 – quella dell’obsoleto e ridicolo sistema dei collegi elettorali. E inequivocabilmente nel senso che nessuno poteva stavolta, al momento di depositare il voto nell’urna, equivocarsi in merito a tendenze autoritarie da Trump ostentate con lampante evidenza – lampantemente violenta, come nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 – tanto nel corso del primo mandato quanto nella molto pastrocchiata, ma su questo specifico punto chiarissima, retorica dei suoi comizi durante l’ultima campagna elettorale.

Donald Trump è infatti – al di là e al di qua d’ogni possibile considerazione politico-ideologica – un monarca assoluto “naturale”. Lo è perché (tutta la sua biografia e tutta la storia della sua ascesa politica lo dimostrano) è organicamente incapace di concepire qualsivoglia entità, astratta o concreta, al di fuori di sé medesimo e del proprio potere. Con lui tutto comincia e – per volontà di Dio, come ha senza ritegno dichiarato nel suo discorso inaugurale una decina di giorni fa – tutto finisce. Per Trump non c’è morale, non c’è verità, non c’è principio, cultura o valore che conti oltre la frontiera da Trump definita. Ed è attorno a questo vuoto filosofico, etico e cerebrale, a questa fortezza di strutturale ignoranza che, in forma di culto, si sono amalgamate le più diverse tendenze autoritarie nell’ultimo decennio. Dalle antiche piaghe del razzismo e della xenofobia, al fondamentalismo religioso del nazionalismo cristiano fino alle nuove ambizioni – vedi oggi la onnipresenza di Elon Musk a fianco del sovrano – di un iper-capitalismo tecnologico che, desideroso di “farsi Stato”, considera la democrazia un fardello del passato da gettare nella proverbiale “pattumiera della Storia”.

Nelle ultime settimane seguite alla vittoria di Trump, numerosissime sono state le prove di questo ritorno al medioevo. Ed interessante è notare come, mentre la nuova Amministrazione Trump nel nome del “merito” va all’unisono tuonando contro il Dei – il sistema di assunzione di personale che tiene in considerazione i principi di Diversità, Eguaglianza e Inclusione a favore delle minoranze – il nuovo e “rivoluzionario” governo risulti in ogni sua parte formato da cortigiani. Ovvero: da personaggi il cui primo – e spesso anche unico – merito è quello di un’assoluta, incondizionata fedeltà al sovrano.

Non mancheranno le occasioni per tornare sull’argomento. Vale però la pena – dato che come spesso accade è proprio nei più piccoli dettagli che più chiaramente si riesce a leggere la verità – raccontare una storia che i radar dell’informazione, tradizionale e nuova, appena hanno registrato, Nei giorni scorsi sul retro delle cosiddette “challenge coin”, monete celebrative che ogni presidente crea per celebrare se stesso e per alimentare il mercatino delle “memorabilia” politiche (una sorta di filatelia), Donald Trump ha fatto imprimere – a implicita e forse inconscia, ma egualmente chiarissima testimonianza delle sue ambizioni dinastiche – quello che ama presentare come il proprio stemma di famiglia. (l’intera storia è stata raccontata da Rachel Maddow per Msnbc). Nulla di travolgente, soprattutto se la cosa viene considerata nel quadro della quotidianità trumpiana, alimentata da ben altre indecenze. La cosa appare tuttavia significativa, anzi, a tuti gli effetti emblematica di quel che il trumpismo in effetti è, di quel che rappresenta, di quel che dà e, soprattutto, di quel che toglie alla Storia della democrazia americana. Perché?

Per due motivi. Il primo: perché quello stemma è in effetti rubato. Come ben spiega Harriet Alexander in quest’articolo pubblicato da The Telegraph nel 2017, appartiene infatti – ed è da tutte le associazioni araldiche del Regno Unito come tale registrato – alla famiglia scozzese Tydings, originale proprietaria di Mar-a-Lago. Incastonata nel cancello d’entrata e riprodotta come affresco su qualche parete al tempo della vendita dell’enorme magione, questa insegna è stata arbitrariamente inglobata, per gloria propria, da Trump. Il tutto – e qui viene il secondo e più importante motivo – con una minuscola, ma gigantesca modifica all’originale. Al di sotto dei vari elementi che compongono lo stemma – elmi lance, leoni e quant’altro – c’era infatti un’alata parola latina: integritas, che sta per onestà, rigore morale, probità, decoro. Orbene, questo termine è stato dal nuovo management sostituito da un altro, l’unico che l’attuale presidente degli Stati Uniti davvero comprende e venera: TRUMP. Ovviamente scritto a lettere dorate.

Morale della favola: Trump, presidente democraticamente eletto, vuole essere, anzi, già si considera un re. Un re che ruba le proprie insegne. E che, rubandole, apertamente ci racconta come, dove lui appare, scompare l’onestà. Il che in maniera definitiva smentisce quanti di questi tempi vanno con saccenza sentenziando che, con l’arrivo di Trump, gli Stati Uniti sono ormai diventati una repubblica delle banane. Si sbagliano – e si sbagliano di grosso – questi gran soloni. Non perché nell’America trumpiana manchino le banane (oggi presenti, al contrario, pressoché ovunque). Ma perché è della Repubblica che, ormai, quasi s’è persa traccia.

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