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NBA Freestyle | LeBron James non ha limiti: 42 punti a 40 anni. Prima di lui, solo Jordan

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LeBron, 42 punti a 40 anni: nuovo record insieme a Jordan!
Quando era al liceo, alla St. Vincent-St. Mary di Akron, si credeva fosse in grado di camminare sulle acque. E pensare, però, che le abilità realizzative non erano minimamente la caratteristica che ne faceva il più grande prospetto NBA dai tempi di Shaquille O’Neal. Uno che, fosse entrato nella lega anche a 15 anni, sarebbe stata la prima scelta assoluta senza discussione. Rendetevi conto. Era il suo innato feeling per il basket a lasciare disorientati. Era il modo in cui si muoveva in campo, con la capacità di immaginare lo sviluppo del gioco con due azioni in anticipo rispetto agli altri comuni mortali. Era la sensibilità nel distribuire la palla, che non per forza deve essere un assist, spesso è un passaggio che rende i meccanismi di squadra più fluidi. Era la maturità nel fare la cosa giusta, nel momento giusto, con la chiave di lettura giusta. “Si, se vuole ne può mettere 30 a sera”, si diceva. Ma passava tutto in sordina, rispetto all’universo, al modo totalitario con cui LeBron James declinava la sua pallacanestro. E, infatti, era Carmelo Anthony che nel Draft del 2003 era considerata la vera macchina offensiva. Fatto sta, che l’ex ragazzino “sfortunato” di Akron è oggi il miglior marcatore di sempre della NBA (superato un Jabbar che sembrava inscalfibile…). Fatto sta che l’ex prima scelta dei Cavs è l’unico quarantenne insieme a Michael Jordan ad aver mai segnato almeno 40 punti in una partita. È successo stanotte, nella vittoria dei Lakers (che sono quinti a Ovest) sui Warriors. James ne ha messi 42. Entrato nella NBA virtualmente senza un tiro affidabile, il prescelto da diverse stagioni ormai sfoggia una precisione da oltre l’arco intorno al 40%. C’è di peggio. Contro Golden State, per rimanere sul tema, ha fatto 6 su 9 da tre. Fin dagli esordi, iniziarono a chiamarlo il “prescelto”. Se ci si chiede ancora il motivo di questo soprannome, la risposta è sotto gli occhi di tutti da oltre vent’anni. Stagione dopo stagione. Canestro dopo canestro. Record dopo record. Lo avevano (pre)scelto per tutto questo.

Doncic-Davis: Dallas poteva mirare più in alto?
Si è detto e scritto di tutto sullo scambio (senza precedenti) che ha mandato Luka Doncic (e altri) ai Los Angeles Lakers e Anthony Davis (e altri) ai Dallas Mavericks. Un punto fermo: nessuno può già essere in grado di valutarne gli impatti tecnici, perché il basket è un gioco di squadra. Un giocatore si inserisce in un sistema. La bontà di operazioni come queste dipende da come il sistema si adatta al giocatore scambiato e viceversa. Si può presumere che Doncic continuerà a farne 30-35 di media? Si, ma in generale significa poco. Sono solo cifre. E prima o poi tutti devono rendere conto delle vittorie. Quello però che fa riflettere è il perché della scelta di Dallas di “accontentarsi” di Davis. Intendiamoci, un gran giocatore. Un centro (che vede se stesso come ala-forte) che in valore assoluto è in grado di migliorare le dinamiche difensive di qualsiasi squadra. E in attacco è si discontinuo al tiro, ma per il resto siamo al top della lega per il ruolo. L’ex stella dei Pelicans non è più nel picco della carriera, ha sei anni in più dello sloveno, ha spesso guai fisici, non sempre mentalmente è cosciente delle proprie capacità. Allora perché andare proprio dai Lakers per Anthony Davis, invece di puntare ancora più in alto? Forse solo Nikola Jokic al momento non è scambiabile con la nuova stella dei Lakers. Tutte le altre squadre, invece, avrebbero ascoltato con molta attenzione.

Jimmy Bulter ai Golden State Warriors
Non è edificante il modo in cui si è comportato Jimmy Butler negli ultimi mesi con i Miami Heat. Si potrebbe anche osare pronunciare “non professionale”, senza peraltro far storcere alcun naso. Un tira e molla di atteggiamenti davvero poco maturi, sospensioni, ritardi, polemiche, atteggiamenti discutibili. Oggi, Butler è un nuovo giocatore di Golden State. Su come saprà adattarsi alle direttive di Steve Kerr sarà il campo a dirlo. Con Draymond Green, sulla carta, forma un tandem di ali difensivamente devastante per applicazione sul marcatore diretto, ma anche per lettura delle rotazioni. In attacco, invece, la stessa coppia potrebbe avere difficoltà non da poco ad aprire il campo. Butler non è un tiratore da tre (33% in carriera). Può metterla, ma è un’opzione a cui fa ricorso con poca continuità (bassi volumi di tiro). Di contro, i Warriors si portano a casa uno che ha grande forze nella parte alta del corpo quando va in uno contro uno. Che perde pochi palloni, ha tanti punti nelle mani e la freddezza giusta per prendersi l’ultimi tiro della partita. Ah, Butler è anche uno che normalmente cresce nei playoff. Ce ne sarà bisogno, sempre se Golden State ci arriva…

That’s all Folks!

Alla prossima settimana.

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