Omicidio di Nada Cella, dopo quasi trent’anni al via il processo. La rivelazione del commercialista dove lavorava: “Conoscevo la sospettata”
Sembrava un caso destinato all’oblio e invece due giorni fa si è aperto a Genova, per la prima volta dopo 29 anni, il processo sul delitto di Chiavari. Era il 6 maggio del 1996 quando la 24enne Nada Cella fu brutalmente assassinata nello studio commercialista di via Marsala, a Chiavari, dove lavorava come segretaria. A ritrovarla in un lago di sangue fu il suo titolare Marco Soracco, inizialmente sospettato per l’omicidio della ragazza.
La donna “dei bottoni” – A distanza di 29 anni, oggi è imputata con l’accusa di omicidio aggravato dai futili motivi l’ex insegnante Anna Lucia Cecere, che subito dopo il delitto si è trasferita a Boves (Cuneo). Nell’ipotesi dell’accusa, la Cecere avrebbe assassinato la vittima perché accecata dalla gelosia nei confronti di Nada per Soracco di cui la donna pare si fosse invaghita. La Cecere all’epoca fu già indagata per pochi giorni perché due testimoni l’avevano vista uscire trafelata dal palazzo che fu scena dell’omicidio. I carabinieri intercettarono la donna mentre stava già cercando un avvocato, le perquisirono l’appartamento e a casa le trovarono dei bottoni molto particolari, con base metallica incastonata, una stella a cinque punte e la scritta “Great Seal of the State of Oklahoma”. Un bottone identico era stato trovato vicino al corpo di Nada Cella.
La riapertura delle indagini – Tutto questo è stato riportato in un rapporto dei Carabinieri prima che la Polizia acquisisse le indagini: la pista viene presto scartata perché ritenuta fantasiosa. A ritrovare il verbale è stata, pochi anni fa, la criminologa Antonella Delfino Pesce, incuriosita dal fatto che non si fosse mai indagato su una donna nonostante il Dna repertato sul luogo del delitto fosse femminile. Grazie a questa ricerca della Delfino Pesce, nel 2021 c’è stata la riapertura delle indagini. La Procura ha intanto raccolto nuovi testimoni tra cui un frate, padre Lorenzo Zamperin, che all’epoca aveva ricevuto delle confidenze dalla madre di Soracco, Marisa Bacchioni, come ha raccontato ai magistrati: “la Bacchioni era a conoscenza che l’autrice dell’omicidio fosse una donna; proprio quella donna, a lei nota si era invaghita del figlio e non era gradita; la Bacchioni era stata invitata a tacere per il bene del figlio”, ha detto loro Zamperin.
Il processo – Si è arrivati poi al processo, nonostante i “non luogo a procedere” con cui la gup Angela Nutini aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta perché a suo avviso non c’erano elementi sufficienti per procedere contro la Cecere. Ma la Corte d’Appello ha rinviato a giudizio la donna, ribaltando la sentenza tuttavia senza motivarla. E proprio a questo si è appellato l’avvocato di Soracco, Andrea Vernazza, presentando una istanza di legittimità costituzionale. Secondo l’avvocato, infatti, il rinvio a giudizio avrebbe dovuto essere motivato in quanto annullava una precedente sentenza. Nel caso la sua istanza fosse stata accolta il processo sarebbe slittato di alcuni mesi. Ma la sua istanza è stata respinta dal collegio della Corte d’assise presieduta dal giudice Massimo Cusatti e l’iter giudiziario ha avuto inizio. Rigettata la questione sollevata presentata da Vernazza, sono stati ascoltati i primi tre teste. Respinta anche la richiesta degli avvocati della Cecere, Gianni Roffo e Susanna Martini, che avevano chiesto di escludere dal processo un’intercettazione tra la madre di Soracco e un’interlocutrice anonima a cui Marisa Bacchioni ha detto: “L’ho vista che andava via col motorino, l’ho vista tutta sporca che metteva tutto sotto la sella. L’ho salutata e manco mi ha guardata. Le dico la verità. L’ho vista quindici giorni fa nel carruggio e non mi ha nemmeno guardata”. Insieme a Cecere, alla sbarra ci sono anche il commercialista Marco Soracco e l’anziana madre, entrambi accusati di favoreggiamento. “Non sono contro il processo, non ho paura perché sono innocente, voglio solo che ci sia giustizia” ha commentato Soracco prima dell’udienza.
In aula anche la sorella di Nada Cella, che ha detto: “Come questa scala, un gradino alla volta andiamo avanti”, indicando le scale che l’hanno portata verso l’uscita del tribunale.
Nuove rivelazioni – A poche ore dalla prima udienza del processo intanto ieri, all’interno della trasmissione televisiva Rai “Far West” andata in onda su Rai3 e condotta da Salvo Sottile, sono emerse nuove dichiarazioni. A parlare è stato proprio Marco Soracco. L’uomo aveva sempre sostenuto che con Annalucia Cecere aveva una conoscenza superficiale, dovuta ad un paio di incontri insieme ad altre persone. Ieri invece ha ammesso: “Annalucia Cecere era fidanzata di una persona che conoscevo”, poi ha elencato i titoli di studio della donna. “Era una cliente, un’amica, una conoscente, telefonava in studio per confidarsi con me”. (fonte: Repubblica)
Nell’intervista dell’inviata Chiara Ingrosso, Soracco ha confermato di aver riconosciuto la voce roca di Cecere in una intercettazione del 1996, in cui l’imputata, a poco meno di un mese dall’omicidio, lo chiamò presso il studio, sottolineando di non essere “Mai stata innamorata di lui” aggiungendo un lapidario: “Tu a me non piaci”. Poi, il commercialista, ha aggiunto anche che Cecere prima del delitto ci sarebbero state diverse telefonate presso l’ufficio da parte della Cecere che lo avrebbe chiamato per “Lamentarsi con lui del fidanzato”.
La settimana prossima ci sarà la seconda udienza e si vedrà se queste dichiarazioni complicheranno la posizione del commercialista. Questa ammissione coincide difatti con l’ipotesi accusatoria della Procura di Genova che ha sempre interpretato il rapporto tra Soracco e Cecere come confidenziale e profondo al punto che la povera Nada sarebbe diventata un ostacolo anche fisico, quando la mattina del delitto secondo la ricostruzione dell’accusa, avrebbe provato a impedire alla Cecere di entrare nello studio del dottor Soracco. Da lì si sarebbe scatenata contro di lei una furia omicida che “secondo il pubblico ministero Gabriella Dotto e le parti civili, si sarebbe consumato per invidia nei confronti di ciò che rappresentava Nada Cella”, simbolo su cui l’imputata avrebbe caricato tutta la sua frustrazione per il mancato raggiungimento del suo intento: una relazione sentimentale con il commercialista (fonte: Repubblica).
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