Gli insulti razzisti a Kean e quell’assist che Fiorentina e calcio italiano non devono sprecare: copiare gli inglesi
La Fiorentina e il calcio italiano possono davvero compiere un passo importante sul fronte della lotta al razzismo, in una terra spesso di nessuno – tranne che dei proprietari della piattaforma – come quella dei social: Moise Kean, vittima di una serie di messaggi xenofobi dopo la partita in casa dell’Inter, denunciando l’episodio e rilanciando i nomi di chi lo ha insultato, ha fornito un assist da non sprecare. In una stagione in cui il centravanti originario di Vercelli, figlio di immigrati provenienti dalla Costa d’Avorio, sta vivendo il momento migliore della carriera – 19 gol con i viola, 1 in Nazionale -, Kean ha fatto benissimo a ribellarsi, mettendo in piazza le firme/sigle che li accompagnano. La Fiorentina ha sostenuto immediatamente il giocatore non solo nella denuncia mediatica, ma anche in quella formale. Il materiale è sotto la visione della polizia postale. A questo punto, palla alle autorità competenti per prendere le misure adeguate nei confronti dei razzisti (da tastiera e non solo).
Sulla scia del clamore suscitato dall’ennesimo episodio d’inciviltà nel nostro sport – pochi giorni fa, durante un match Under 19 di basket, l’aggressione a una giocatrice, insultata da una donna che l’ha chiamata “scimmia” -, ci sono state manifestazioni di solidarietà nei confronti di Kean da parte di alcuni club, della politica e del ministro Abodi. La reazione di Kean offre però alle nostre istituzioni, in ritardo rispetto a molti altri paesi sul tema della discriminazione e con alcuni settori della stessa politica dove da decenni si fa becera propaganda contro gli stranieri, la possibilità di compiere un salto di qualità, allineandosi ai comportamenti di nazioni, vedi l’Inghilterra, dove la xenofobia viene combattuta in modo serio.
Un esempio della serietà di questo impegno è quanto avvenuto il 5 febbraio in un tribunale di Manchester, dove un ex agente immobiliare, Andrew Bone, è stato condannato a sei settimane di reclusione, con pena sospesa per 12 mesi, per aver postato un tweet spregevole l’11 luglio 2021, indirizzato a Bukayo Saka, Jadon Sancho e Marcus Rashford, dopo la finale persa ai rigori dalla nazionale contro l’Italia. Bone, che dovrà fare 15 giorni di rieducazione sociale e pagare una multa di 12.62 euro, aveva cancellato il post, ma fu arrestato tre giorni dopo la partita. Si difese sostenendo di essere stato hackerato, ma l’analisi delle antenne dei telefoni cellulari dimostrò che era stato lui a inviare il tweet. Gli investigatori individuarono altri messaggi razzisti pubblicati da Bone sui social media. In uno del 2021, c’era scritto: “Al diavolo gli italiani, i gallesi e gli scozzesi, costruiamo un muro enorme e sanguinoso”.
Licenziato dalla sua azienda, Bone oggi fa l’imbianchino. Ha pianto alla lettura della sentenza: temeva la prigione. Il procuratore capo dell’inchiesta, Martin Brogan, ha commentato: “Andrew Bone ha pubblicato sui social media un commento razzista, infrangendo la legge. I messaggi pieni di odio e offensivi sul nostro sport nazionale causano grande angoscia e siamo pronti a perseguire penalmente i cosiddetti tifosi che utilizzino commenti razzisti, pieni di odio o comunque offensivi, sia di persona, sia online”. L’organizzazione anti-razzista Kick It Out ha qualche dubbio sulla forza deterrente della condanna inflitta a Bone. L’ex agente immobiliare ha evitato la prigione, ma sua vita è stata sicuramente stravolta: ha perso il lavoro, ha un salario molto più basso rispetto al passato e la sua notorietà è legata a una vicenda spregevole. In Italia, tutto ciò non è mai avvenuto: la storia di Moise Kean, seguendo questo esempio inglese, potrebbe alzare finalmente il livello della reazione alla vergogna del razzismo. Altrimenti, come sempre, solo chiacchiere e distintivo.
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