Meno male che a Cristicchi nessuno ha detto che ‘La cura’ è un testo maschilista

Solo il genio dissacrante di Tommaso Labranca era riuscito a mettere alla berlina i testi criptici del Maestro Franco Battiato, meleggiando quel capolavoro che è la Prospettiva Nevski in un libro a sua volta indimenticabile come Chaltron Escon. Lì Labranca scriveva che a San Pietroburgo la minima stagionale è di -7°C, e che però non si può cantare “un vento a sette gradi sotto zero”, poiché “un vento a soli sette gradi sotto zero non avrebbe reso possibile la scrittura di un verso successivo, quello in cui il vento ‘a tratti, come raffiche di mitra, disintegrava i cumuli di neve’. A trenta gradi sotto zero i cumuli di neve sono ormai piccoli ghiacciai compatti che nessun vento può disintegrare”.

E così via, in un crescendo di sbeffeggiamenti caustici del “Battiato cialtrone”, ché esiste – dice sempre Labranca – sia quello sia il Battiato non-cialtrone, per esempio quello che va a fermare la latinizzazione della lingua araba, come si sente nel videoclip di Voglio vederti danzare.

Altri tempi, altri genii. Oggi mi stupisce che dopo la performance del sussiegoso Simone Cristicchi, che a Sanremo ha portato quello che (secondo me ingiustamente) è diventato il capolavoro rappresentativo dell’opera di Battiato, La cura, nessun* abbia scritto qualche pensoso articolo per dire che no, La cura non andrebbe riprodotta perché è un testo intriso di maschilismo tossico, di patriarcato, di mansplaining (ma in realtà nel tempo qualcun* che si sia lanciato in affermazioni del genere c’è stat*).

Eppure, appigli ce ne sono – per chi ha pensato ‘bene’ di piegare la cultura a tali schemi – tanti quanti quelli che hanno fatto dire a qualcuno che Fratelli d’Italia, il nostro inno nazionale, scritto dal povero Goffredo Mameli (che per inciso per la ‘patria’ – altro termine bersagliato, per esempio da Murgia e dal murgismo – ci rimise la buccia morendo a soli 21 anni nella difesa della Repubblica Romana) è un testo patriarcale.

Ma leggiamo. Iniziamo malissimo: “Ti proteggerò”. L’uomo che protegge la donna inerme, incapace di difendersi da sola, bisognosa della protezione maschile. “Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore”: horribile dictu, la donna preda dell’isterismo, instabile emotivamente, che ha bisogno del maschio che la calmi e soprattutto la protegga da se stessa e dalla sua volubilità. E poi “Supererò le correnti gravitazionali/Lo spazio e la luce per non farti invecchiare”: ageismo! “E guarirai da tutte le malattie”: abilismo!

Ma basta con questo gioco, che mette tristezza anche solo a farlo per ischerzo.

Non sappiamo in realtà a chi sia dedicata La cura: a una donna amata, alla madre, a se stesso addirittura. In ognuno di questi casi, non ci sogneremmo mai di usare il volgare metro interpretativo che qui abbiamo messo alla berlina, e che riduce ogni opera d’arte al suo contenuto più estrinseco, e sovrappone biografia e opera, e riduce l’arte al suo presunto ‘messaggio’ morale o peggio moralistico.

In fondo, si dice che anche gli sberleffi del geniale Labranca fossero una forma di estremo, paradossale omaggio al Maestro. Ed è solo a questo livello – omaggio deferente – che bisogna attestarsi nell’interpretazione de La cura e di ogni altra parola e nota scritte da Franco Battiato. Come diceva Faulkner a proposito dell’Ulisse di Joyce, a cui si era accostato come il pastore battista analfabeta fa con la Bibbia: con fede.

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