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Lettera pro-Malagò con le firme false, le scuse non tornano: il documento è stato inviato dalla Pec ufficiale del Coni

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C’è un ulteriore elemento da aggiungere al pasticciaccio brutto dell’ormai famosa “lettera pro Malagò”, il documento che negli scorsi giorni era stato inviato al governo per chiedere la proroga del n.1 del Coni a nome di tutti i presidenti federali, senza che però molti di questi avessero dato il loro consenso. E non è un dettaglio banale per ricostruire le responsabilità di questa storia che imbarazzato direttamente il Comitato Olimpico. A quanto ha appreso Il Fatto, la petizione inviata al ministro dello Sport, Andrea Abodi, e alla premier Giorgia Meloni, è partita dalla Pec ufficiale del Coni. Altro che iniziativa individuale di qualche dirigente troppo intraprendente, come era stato raccontato per salvare la faccia al capo dello sport italiano.

La vicenda ormai è nota: giovedì mattina viene divulgata una lettera indirizzata a Palazzo Chigi che chiede di equiparare il Comitato Olimpico alle Federazioni, così da permettere la ricandidatura di Malagò, che altrimenti a giugno dovrebbe lasciare. Nell’iniziativa non sono coinvolti soltanto gli enti pubblici (Aeroclub, Autoclub e Tiro a segno, quest’ultimi due peraltro commissariati), il nemico storico Angelo Binaghi (tennis), insieme a Paolo Barelli (nuoto) e Maurizio Casasco (medici sportivi) con la scusa che sono parlamentari, e un unico non aderente, Angelo Cito (taekwondo), così si arriva a ben 43 firmatari. La richiesta, insomma, sembra forte e unanime per tutto il movimento, rimbalza sui principali siti e quotidiani, così da mettere in difficoltà il governo, intenzionato a far rispettare la legge sul limite di tre mandati.

Che qualcosa non torni, però, si capisce quando diversi presidenti si stupiscono di trovare il proprio nome in calce a un documento di cui avevano a malapena sentito parlare. Come ricostruito dal Fatto, si scopre che la regia dell’operazione era stata dell’ex sindacalista Sergio D’Antoni, n.1 del Comitato Sicilia, da tempo assurto a consigliori di Malagò, che aveva preparato e inviato la petizione ai presidenti federali, licenziandolo poi a nome di tutti, anche di quelli che non l’avevano sottoscritta apertamente (e non sono pochi: pallavolo, rugby, pugilato, baseball, pattinaggio, pentathlon, sci nautico, tiro con l’arco, judo, l’elenco delle Federazioni che si sono dissociate è lungo). Tanto che alla fine lo stesso D’Antoni era stato costretto a fare marcia indietro e prendersi tutte le colpe: “L’iniziativa è mia, Malagò non è assolutamente coinvolto. Ci deve essere stato un equivoco con alcuni presidenti, avrò capito male io”.

Un dettaglio inedito, però, sembra smontare questa versione: la lettera, che non era a nome di D’Antoni (mai citato nel testo) ma di tutti i presidenti federali, è partita dalla posta certificata del Comitato olimpico, in particolare quella degli organi collegiali. Una casella che non è nella disponibilità materiale di D’Antoni, che contatto dal Fatto per ulteriori delucidazioni, spiega: “Un impiegato l’ha inviata per conto mio”. Autorizzato da chi? “Nessuno, soltanto da me: in quanto membro di giunta potevo utilizzare quell’indirizzo”. Non è proprio così: una comunicazione dalla casella Pec (che in quanto posta certificata ha anche un valore legale), deve essere autorizzata dal presidente del Coni, Malagò, o in alternativa dal segretario generale, Carlo Mornati, altrimenti vorrebbe dire che qualsiasi membro di giunta può inviare una mail per conto del Coni. O uno dei due sapeva, o è stata commessa un’infrazione. D’Antoni minimizza: “La responsabilità è tutta mia e me la sono già presa”. Ma sia a livello formale che sostanziale, la petizione si presentava come un documento ufficiale del Comitato Olimpico, cioè un ente pubblico, rivolto al governo. Qui la figuraccia è proprio istituzionale.

X: @lVendemiale

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