L’ossessione di Trump per l’Iva (“è come un dazio”) e l’incrocio pericoloso con le inchieste milanesi per evasione che spaventano Meta e X
“Ho avuto problemi con la Ue perché ci hanno imposto dazi…lo fanno nella forma di un’imposta sul valore aggiunto che è circa del 20%”. Nei giorni scorsi Donald Trump è tornato a ribadire l’intenzione di avviare una guerra a colpi di tariffe reciproche con il Vecchio Continente non solo per rispondere alla presunta “ingiustizia” del surplus commerciale europeo e dei dazi imposti nei confronti di alcuni prodotti statunitensi, ma anche come reazione all’Iva. Che la sua amministrazione considera una barriera tariffaria, appiglio per ritorsioni ancora più aspre. Ma c’è un ulteriore tassello che finora è rimasto in secondo piano: a Milano sono in corso inchieste potenzialmente esiziali per il modello di business delle piattaforme digitali. A Meta e al social network X di Elon Musk viene contestato proprio di non aver pagato l’Iva sui servizi digitali offerti agli utenti in cambio dell’acquisizione dei loro dati personali. Trattandosi di un’imposta comunitaria, se si arrivasse a giudizio è probabile un rinvio alla giurisdizione europea. A quel punto per i colossi tech sarebbe in ballo l’obbligo di applicare l’Iva in tutti i 27 Paesi membri.
Un passo indietro. L’Iva è adottata in 170 Stati nel mondo tra cui non figurano gli Usa (dove invece vige una retail sales tax sui consumi). Si applica al valore dei beni in ogni passaggio della filiera di transazioni che porta dalla materia prima al consumo finale passando per i semilavorati e i servizi di trasformazione. Ogni venditore lungo la catena del valore la riscuote dall’acquirente dei suoi beni o servizi e matura così un credito che gli verrà poi riconosciuto dal fisco. Solo la vendita al consumatore finale, quella in cui l’Iva colpisce la somma di tutti i valori aggiunti delle fasi precedenti, rimane effettivamente tassata. Fin qui il funzionamento per i beni prodotti e venduti nello stesso Paese. E per quelli importati, per esempio dagli Usa? Facile capire che per garantire una concorrenza equa tra produttori esteri e nazionali l’Iva deve colpire anche il loro consumo. Se invece un prodotto viene esportato dalla Ue agli Usa, il venditore ottiene il rimborso dell’Iva e il consumatore pagherà la locale sales tax. In questo modo l’imposta è del tutto neutrale e non influenza la scelta tra un’auto o un altro prodotto made in Ue e uno made in Usa.
La Casa Bianca non la vede così e a quanto si è capito ha intenzione di sommare l’importo dell’Iva applicata dai diversi Stati – nella Ue le aliquote vanno dal 17 al 27% – alle tariffe reciproche che minaccia di imporre sui prodotti Ue. È così, come mostrano simulazioni di Deutsche Bank, che si arriva al dazio medio del 25% annunciato dal presidente statunitense: se si considerassero solo le barriere tariffarie vere e proprie, Italia e Francia sarebbero “colpevoli” di tariffe inferiori al 2%, Spagna e Germania poco sopra. La partita si incrocia però con quella che vede il tycoon schierato con le multinazionali statunitensi contro l’applicazione della tassa minima globale del 15% negoziata in sede Ocse, delle web tax nazionali (come quella in vigore in Italia che il ministro Giancarlo Giorgetti ha prontamente annunciato di esser pronto a modificare) e di Digital Markets Act e Digital Services Act, le leggi europee che regolano le interazioni tra big tech e i consumatori Ue: uno dei memorandum trumpiani prefigura misure di ritorsione contro tutte quelle norme per tutelare gli interessi economici americani.
Su quel campo non potranno non pesare le iniziative giudiziarie italiane nei confronti di due giganti ai cui vertici ci sono Mark Zuckerberg, ex oppositore del tycoon poi rapidamente montato sul carro del vincitore, e Elon Musk, geniale imprenditore sudafricano “padre” tra il resto di Space X e Tesla diventato consigliere e alter ego del presidente. L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza hanno contestato a Meta – quindi Facebook e Instagram – e X (per anni precedenti rispetto all’acquisizione dell’ex Twitter da parte di Musk) mancati versamenti Iva rispettivamente per quasi 900 e oltre 12 milioni di euro per gli anni 2015-2021 e 2016-2022. Il tutto sulla base di una tesi innovativa, sposata dalla Procura di Milano che ha aperto un’indagine per evasione: le prestazioni fornite agli utenti che mettono a disposizione i propri dati personali poi sfruttati per la profilazione a fini di marketing sarebbero imponibili in quanto “operazioni permutative” (in pratica baratti) ai sensi del Dpr del 1972 sulla disciplina dell’imposta. Procedendo su questa base i pm hanno calcolato l’Iva dovuta applicando l’aliquota del 22% al “valore normale” del servizio, approssimato dalle spese sostenute in Italia per produrlo.
I termini per trovare un accordo scadono a inizio aprile, data oltre la quale per gli allora rappresentanti legali della filiale europea del gruppo di Menlo Park e di Twitter International unlimited company può scattare la richiesta di rinvio a giudizio. Ma c’è una differenza sostanziale rispetto a precedenti casi che, a fronte di contestazioni di omessa dichiarazione dei redditi, hanno visto diverse aziende tecnologiche tra cui Google e Apple aderire alle richieste delle autorità fiscali italiane e versare il dovuto ottenendo la chiusura delle parallele inchieste secondo cui hanno una “stabile organizzazione” in Italia. Stavolta pagare significa ammettere che l’accesso alle piattaforme è imponibile Iva, che quindi in linea di principio va addebitata agli utenti. Una rivoluzione che cambierebbe radicalmente un modello basato sulla – apparente – gratuità. Si andrà quindi con tutta probabilità a processo, potenzialmente fino al Tribunale Ue. Un esito che promette di scatenare nuove dure reazioni dell’amministrazione Usa.
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