Il portuale racconta l’incidente a Monfalcone: «Quei 40 secondi in cui i colleghi mi hanno salvato la vita»
foto da Quotidiani locali
MONFALCONE Quaranta secondi possono sembrare niente, una parentesi brevissima. E in effetti lo è se in mano hai un piede di porco e cerchi con ogni forza di liberare un collega dalla morsa del metallo. Spuntandola, alla fine.
Ma se in quei 40 secondi sei invece tu, ad avere il piede sinistro schiacciato da una billetta del peso di due tonnellate, sei tu a sentire «un dolore indescrivibile, lancinante, un calore improvviso e quell’estremità tutta bagnata dal sangue», allora diventano «un’eternità».
«E a me lo sono parsi, un’eternità, quei 40 secondi in cui cercavano di disincastrarmi», dice con franchezza dalla stanza dell’ospedale San Polo di Monfalcone in cui è ricoverato Michel Monaro, 35 anni, dipendente dell’Impresa Alto Adriatico, rimasto vittima venerdì di un grave infortunio in stiva, verso le 17.30. Un fatto che ha scosso Portorosega. Ma che ha anche generato l’abbraccio collettivo del ferito, cui sono state amputate due dita: alluce e prima falange dell’indice.
Così, quando a volte pare che l’indifferenza sovrasti, una storia di solidarietà sboccia invece allo scalo marittimo, dove freddezza e noncuranza svaporano. «Devo dire grazie a tutti – racconta Monaro –, non sono mai rimasto solo». Ricorda ogni dettaglio: «Sempre le stesse manovre e procedure, in questi casi. Il gruista era fermo: non c’era movimentazione. Ma la nave dalla Cina era brutta, le billette messe male». Si tratta di semilavorati siderurgici in forma di sbarra a sezione quadra, ottenuti per laminazione. Le billette di norma sono lunghe 12 metri, pesano due tonnellate. Vengono raccolte in fasci.
«Non erano stipate bene – riprende Monaro –, ma buttate una sopra l’altra, mancavano dei legni». Capita, talvolta, «non solo con le billette», precisa. Il legname è di fardaggio, serve a impedire possibili spostamenti dei carichi. «Avevamo – ripercorre – con la catena già alzato la billetta da un lato per mettere, sotto, i tronchetti e far sì che anche l’altra parte si alzasse. Il gruista era fermo, non c’era movimentazione. Io ero in procinto di prendere la catena e procedere sull’altro lato quando ho sentito il collega gridare. È stata una frazione di secondo. Ma già avevo il piede intrappolato».
Erano in quattro, in stiva, più il mantiere a dirigere le operazioni. «È stato Ares, che aveva urlato poco prima, a prendere il piede di porco per liberarmi – dice –. C’avrà messo, con gli altri, 40 secondi. Può sembrar poco, per me un’eternità. Poi mi hanno sdraiato, dato da bere, preso in braccio e messo su una cesta per trarmi fuori dalla stiva – riferisce Monaro –. Hanno operato davvero benissimo. Tutti i capi turno erano già sottobordo ad aspettarmi, per dirmi di stare tranquillo, che sarebbe andata bene, e farmi bere altra acqua».
In seguito Michel Monaro è salito sull’ambulanza ed è lì che ha preso coscienza della sua situazione. «Ho visto le facce degli operatori, sentito le loro comunicazioni e ho iniziato a capire – sempre il 35enne –. Ho cercato di restare il più possibile lucido, ma quando sono arrivato all’ospedale devo dire che ho pianto. È stato lo choc».
«Ho 35 anni, una vita davanti e tutti mi dicono che tornerò al 100% come prima, ma io so che non è così: sono frasi di circostanza – chiarisce –. Avere un piede con due dita amputate non è bello. Avrò certi handicap e dei limiti. So però anche che sarebbe potuta andare molto peggio, avrei potuto perdere la gamba e che in stiva ci sono stati in passato infortuni più gravi del mio».
«Due giorni dopo l’intervento – prosegue – i medici mi hanno spinto a vedere com’era ridotto il piede. Ho preso consapevolezza, non si può tornare indietro: non possono trapiantarmi due dita, magari userò una protesi. Ma vado avanti a testa alta. E tornerò a lavorare in porto, anche se mi auguro di non scaricare mai più billette in stiva».
La mamma Donatella Benes è al suo fianco, una colonna. Una valanga di messaggi e tanto affetto li ha travolti in queste ore.
«Il primo obiettivo – conclude il portuale – è tornare a casa e riprendere i miei ritmi, adattarmi alla situazione, anche se devo dire che al San Polo ho trovato un’équipe veramente buona, dalle infermiere ai medici, che ringrazio. Un grazie di cuore anche a tutte le persone che si sono fatte vive, pure colleghi con cui in questi anni ho legato di meno: l’ho apprezzato. In porto siamo una famiglia e la solidarietà che c’è qui, non la si riscontra in nessun altro posto di lavoro».