Panatta, il campione al Festival Link di Trieste: «È sempre la politica a sfruttare lo sport. Mai il contrario»
TRIESTE Schietto e diretto – ma sempre garbato – Adriano Panatta ha le idee chiare: i social hanno fatto molto male alla narrazione dello sport. Le bufere social sono entrati dentro le notizie, ma nello sport la competenza conta e così l’equilibrio con cui parlare di quello che succede sui campi da gioco.
L’ex numero 4 al mondo e a lungo il più forte tennista in Italia dialogherà con Fabrizio Brancoli, vicedirettore del gruppo Nem (editore anche di questo giornale) con delega al Piccolo, alla Link arena in piazza Unità a Trieste sabato alle 17.30.
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Per prenotarsi – a questo, come a tutti gli incontri di Link – basta entrare sul sito www.linkfestival.it nella sezione del programma, individuare l’incontro e procedere con passaggi semplicissimi. Campione e commentatore sportivo «dissacrante» – la definizione è sua –, non le manda a dire quando viene sollecitato sulle intersezioni tra sport e politica, emerse con forza nelle Olimpiadi di Parigi e vissute anche da lui in prima persona all’epoca della Davis vinta nel Cile di Pinochet: «Non è mai lo sport che sfrutta la politica, è sempre il contrario».
Panatta, l’Olimpiade ci ha dato molto da pensare. La narrazione dello sport è stata molto discussa. Penso alla polemica sui quarti posti... Come si racconta una sconfitta sportiva?
«Innanzitutto con grande rispetto verso l’atleta, che mi sembra che in qualche caso non ci sia stato. Chi scrive forse non sa quanto sia difficile arrivare quarti a un’Olimpiade in qualsiasi sport. L’ho trovato di cattivo gusto. Va sottolineato che non tutti ne hanno parlato così, solo qualcuno. La risposta più giusta ad ogni modo l’ha data Mattarella, invitando anche chi ha raggiunto il quarto posto al Quirinale. Ha fatto una delle cose più delicate e di grande rispetto per questi ragazzi che non sono riusciti a portare a casa una medaglia».
Però rimane il fatto che un vincitore e un vinto c’è...
«Non esisterebbe lo sport se non fosse così. Non capisco che domanda è».
Seguendo la polemica sui social, ad un certo punto i giornalisti venivano criticati per qualsiasi domanda posta a chi per un soffio aveva mancato la medaglia...
«Lasci perdere i social. I famosi hater sono gente frustrata, che vive il successo e le vittorie come una loro sconfitta e si sfoga sui social. Chissenefrega, lasciamoli parlare... Basta non dargli retta. Purtroppo questo mondo dei social ormai ha aperto la strada della comunicazione anche ai beoti. La comunicazione deve essere fatta da giornalisti e da esperti».
Ma la percezione è che il ruolo del giornalismo, soprattutto della carta stampata, in questo campo sia eroso...
«Ovvio che il problema esiste, la comunicazione è più diretta. Ma un bel pezzo scritto la gente lo legge volentieri. Bisogna puntare sulla qualità».
Queste Olimpiadi hanno di nuovo messo alla ribalta l’incrocio tra sport e politica, sebbene il comitato olimpico internazionale dichiari lo sport perfettamente neutrale e vieti espressioni politiche sui campi, in un anno molto caldo con due guerre in corso. Per esempio Macron ha puntato sulla buona riuscita dell’evento per rafforzare il suo standing; o penso al caso di Imane Khelif...
«Ma scusi che cosa dovevamo pensare? Che Macron dovesse organizzare un’Olimpiade dimessa? La grandeur fa parte della mentalità francese. Secondo me è stato tutto molto bello a parte il discorso della Senna, potevano farne a meno. Certo fa parte di un piano più ampio per creare la Senna balneabile, hanno investito miliardi con risultati... Quando vedevo questi poveretti che nuotavano nella Senna mi facevano un po’ tenerezza. Io non mi sarei tuffato».
E sulla pugile algerina?
«Mi ha fatto molta pena questa ragazza, si è trovata in un bailamme esagerato. Aveva fatto tutti gli esami per poter partecipare, era conforme. Hanno creato un caso. Come sempre poi sono entrati di mezzo i social. Sono temi un po’ pruriginosi e la gente mediocre pensa “chissà com’è fatta”...».
L’incrocio di politica e sport l’ha vissuto anche lei da sportivo in Cile nel 1976...
«Erano anni diversi, tempi diversi, la nostra è stata una manifestazione di protesta un po’ sottile quando entrammo in campo con la maglietta rossa contro Pinochet. Tanto che i giornalisti non la capirono, l’hanno scoperto dopo trent’anni quando l’abbiamo raccontato. Neanche un giornale scrisse una parola il giorno dopo. Se se ne sono accorti e non l’hanno scritto è grave, se non se ne sono accorti è ancora più grave. Un cronista attento certe cose dovrebbe cogliere. Ma parliamo di quasi 50 anni fa. Non si possono fare paragoni con adesso, le dinamiche sono diverse».
Quali sono?
«Sport e politica adesso convivono con grande ipocrisia. Gli atleti russi non hanno potuto partecipare alle Olimpiadi, se non con una bandiera quasi apolide... O a chi non ha potuto esprimersi sulla Palestina. È una mancanza di libertà. Se uno vuole fare una dimostrazione di dissenso può farla, in maniera eclatante o garbata – che penso faccia arrivare il messaggio in maniera più forte. La politica si ricorda dello sport quando le interessa per certe cose. Non è mai lo sport che sfrutta la politica. Ci sono tanti esempi di questo, come il boicottaggio di Mosca verso gli Stati Uniti... Io spero di vivere in un Paese libero, in cui si può esprimere la propria opinione in maniera garbata. E non vedo perché lo sportivo si debba astenere dal farlo, è un cittadino come tutti gli altri, e mi sembra che la Costituzione garantisca queste espressioni. Il mondo dello sport è sempre stato ipocrita».
Come mai?
«Lo si vede anche nelle trasmissioni tv. Uno ha paura di dire qualsiasi cosa verso un giocatore, un allenatore, una squadra... Ci sono delle sensibilità esasperate. È vero specialmente nel calcio. Stando alla Domenica sportiva sento le dichiarazioni di giocatori, tecnici, dirigenti, nella gran maggioranza dei casi si cerca di svicolare, non urtare sensibilità, le risposte sono banali. Questa cosa non la apprezzo molto».
Avere un numero 1 al mondo di tennis italiano aiuta a sgretolare il monopolio del calcio nel cuore degli italiani?
«Sinner logicamente è sulla bocca di tutti, tra un po’ verrà anche santificato. Però ci sono altri giocatori che hanno fatto crescere questo movimento tennistico, Berrettini, Musetti, la Paolini... Il movimento d’interesse È sempre stato così, con un movimento d’interesse a seguito di risultati. Quando Tomba vinceva tutti erano sciatori. Oggi sono tutti tennisti ed esperti di sport. Vediamo già nelle scuole di tennis tanti che si iscrivono. Questo è bello, fa bene allo sport».
Abbiamo parlato di sconfitte all’inizio. E le grandi vittorie come si raccontano? Come grandi epiche dense di eroismo? E come si vivono?
«Ma quale eroismo? Tanti son morti eroi, qui non muore nessuno. Non diciamo cose che non stanno in piedi su. Vincere è bellissimo. Lo sport è la cosa meno democratica che esiste, alla fine vince solo uno, o la squadra. Ma non esageriamo. Secondo me è molto più importante capire – se posso dare un consiglio ai giovani virgulti – che tutto questo finisce molto presto. È un grande privilegio arrivare ai vertici, ma bisogna essere pronti ad affrontare la vita normale. La grande sfida è dopo: è essere uomini o donne con i piedi per terra, usando anche l’esperienza che si è fatta in competizione. Quella è la grande sfida, quando dopo i trent’anni ti diranno che sei un po’ vecchio».