Dai giocattoli ai diari: così Sarajevo ricorda le piccole vittime del lungo assedio
Le guerre sono orribili, di più se fratricide. E nel dopoguerra la memoria, anche se dolorosa, è vitale: per onorare vittime e sopravvissuti, e perché le mattanze non si ripetano in futuro. È questa la lezione, tristemente attuale, che arriva da Sarajevo, capitale bosniaca che fu vittima del più lungo assedio della recente storia europea, città stretta con ferocia dal 1992 al 1995 e martirizzata dalle bombe e delle granate che piovevano dalle montagne, lanciate dagli sgherri comandati da Ratko Mladić.
Cecchini e granate fecero quasi dodicimila morti, tra i quali 1.600 bambini e ragazzini. E sono proprio quest’ultimi i tristi protagonisti di Sarajevski Spomenar (Diario di Sarajevo), una mostra che ha già commosso la città e che farà lo stesso con i futuri visitatori. La mostra dedicata «ai bambini uccisi durante l’assedio», come recita il sottotitolo dell’esibizione, è ospitata in uno spazio dedicato e permanente realizzato con il sostegno del Museo storico della Bosnia-Erzegovina, il Museo cittadino della capitale e l’Associazione dei genitori dei bimbi uccisi nei quattro anni di assedio. Si tratta di una sorta di grande album di ritagli che ha il merito di far “parlare” i bambini ammazzati da bombe e cecchini attraverso i loro libri, diari, lettere, testi scritti, fotografie, ma anche oggetti di tutti i giorni, tra cui vestiti e scarpe, strumenti musicali e tanti giocattoli.
Impossibile non commuoversi osservandoli, ma seppur dolorosa si tratta del «concetto» e del modo più giusto per onorare i bambini morti per perpetuarne la memoria, ha assicurato Fikret Gabrovica, presidente dell’Associazione e padre di una delle vittime, Irma, uccisa a 11 anni. «Mi ha colpito che i bambini, in quelle circostanze, riuscissero a scrivere messaggi e lettere» del genere, è stato il commento di Gabrovica all’inaugurazione della mostra.
Tra gli oggetti esposti, anche delle magliette. «Quando siamo fuggiti da Grbavica», uno dei quartieri più martoriati, «sono riuscita a prendere due T-shirt con me e una ora è alla mostra, lui è stato sepolto con l’altra» indosso, ha raccontato invece Zdravka Gvozdjar rievocando la storia del figlio Eldin. Vicino alla maglia, tante lettere scritte da bimbi che non ci sono più, «come quelle che mandava Eldin ai nonni; ma tutti gli oggetti qui provocano uguale dolore in noi genitori», ha aggiunto.
«Sono qui perché dei criminali hanno ucciso la mia unica figlia, Jasmina, aveva 17 anni ed era al secondo anno della Scuola di Economia», ha detto invece Alija Hodzić. Come lei, tantissimi genitori hanno «atteso per anni questo momento, per essere parte di qualcosa, per ricordarci di come morirono bambini innocenti, per ricordare che gli aggressori volevano distruggere questa città e i suoi discendenti, ma non ci sono riusciti». Bambini che, malgrado le privazioni e il terrore, coltivavano «sincerità e gioia dentro di loro e ciò si vede nei loro scritti e diari, nelle loro emozioni e volevamo mostrare cosa è stato loro tolto», ha spiegato Samina Tanović, una delle persone che hanno contribuito a raccogliere i materiali per l’esposizione-memoriale.
L’esposizione non è solo memoria, ma svolge anche un ruolo essenziale, in una Bosnia che rimane divisa e dove, solo qualche settimana fa, ha dato scandalo la proposta di raccontare le “gesta” di Ratko Mladić e Radovan Karadzić ai ragazzini serbo-bosniaci sui banchi di scuola. «Qui – ha così previsto Grabovica – verranno tanti giovani, studenti di elementari e medie, avranno la possibilità di imparare la storia degli Anni Novanta, che non si insegna a scuola». —