La "malattia" del Pd, i dem toscani tutti contro D’Alema

FIRENZE. Son tutti arrabbiati col Baffo della Ditta. E mica solo gli ex fedelissimi di Matteo Renzi, il cui scatto di revanscismo contro il lider Maximo qui, in Toscana, già culla del Giglio Magico, ci si poteva aspettare quasi come un riflesso pavloviano, in questa storia di veleni e vecchi rancori che tornano a galla fuori tempo massimo (Massimo, appunto), quasi come un rigurgito inconscio di un partito in perpetua psicanalisi. No, sono imbufaliti anche gli ex “compagni” di corrente, d’ala, di fronda di Massimo D’Alema. Lui, quello del sisma involontario e del “ma che diamine, quanto trambusto per una battuta detta fra amici a Capodanno”.

Perché, diciamo, quelle parole sul partito lettiano guarito dalla «malattia» e dal contagio renziano che lo avrebbe convinto a rientrare nel Pd, nel Pd toscano non son piaciute per niente. Neppure a sinistra. Neppure fra chi, come l’ex che giurava di occuparsi ormai solo «del rinnovamento del pensiero della sinistra del Terzo millennio», mica formichianamente di sangue e merda, riecheggia ancora nei discorsi i fasti del Pci. Così, per dire, Enrico Rossi, l’ex governatore, dice di voler «lasciar stare le polemiche sulle malattie e sulle guarigioni perché bisogna pensare al presente e al futuro della sinistra», ma intanto ricorda, lui che fu il primo figliol prodigo, che «Articolo Uno è stato un fallimento, come dissi all’indomani del risultato elettorale, ma ancor peggio è stato il fatto che la componente di sinistra del Pd (leggi: D’Alema e i dalemiani, ndr), uscendo, ha spostato gli equilibri interni al partito e ha fatto mancare il suo contributo». Vincenzo Ceccarelli, capogruppo in Consiglio regionale e uno dei big dei socialdem in Toscana, non solo liquida come «battuta infelice» quella di D’Alema, ma dice pure che se «mai fosse stata una malattia il renzismo», allora «anche lui», sì lui, il Baffo della Ditta, «avrebbe contribuito a farla sorgere». Dunque, chi vuole rientrare va bene, «ma non per dare lezioni». Capito? L’ex premier e ministro degli Esteri, l’uomo che nel Pd, almeno degli albori, faceva il bello e cattivo tempo, stia al suo posto. «Bene ha fatto Letta a declassare la questione a tempesta in un bicchiere d'acqua». Del resto, dice la segretaria toscana Simona Bonafè, «il problema non è far rientrare chi è uscito. Chi rientra deve però avere l’obiettivo di rispettare un partito plurale e lavorare perché sia la più grande forza di sinistra progressista e riformista del paese, non quello di avvitarsi in polemiche inutili e dannose con l’obiettivo di un ritorno al passato».

Ecco, Renzi, ovvio, c’ha surfato sopra («D’Alema rientra nel Pd dicendo che chi lo ha portato al 40% è malato»), Enrico Letta ha fatto subito trapelare la sua irritazione: «Il Pd da 14 anni è un’unica grande casa dei progressisti e dei democratici, nessuna malattia e quindi nessuna guarigione», ha twittato stizzito, ché son mesi che prova a stare sereno e a scrollarsi di dosso quello lì. Ma son proprio quelli della gauche i più irritati. Gli antirenziani. «Trovo il termine malattia infelice e inappropriato – dice l’assessora orlandiana Alessandra Nardini – Ciò che è accaduto con Renzi è che è cambiata linea politica e l’ho sempre trovata sbagliata e arrogante, alla lunga perdente. E quella linea, che non si capisce come possa essere ancora difesa da alcuni in modo acritico, è stata archiviata grazie a chi si è impegnato dall’interno». Il posizionamento dei singoli, però, «appassiona solo i dirigenti, pensiamo a far tornare elettrici e elettori». E magari a non offrire sponde a chi ora gongola. Tipo ad Andrea Marcucci, il senatore frondista di Lucca, che ora chiede il congresso. Dario Parrini, ex segretario regionale ed ex renzianissimo, derubrica le parole dalemiane a «esche per piccole schiere di faziosi nostalgici e autoreferenziali». Andrea Romano, deputato dem e portavoce di Base riformista, addirittura ne esce così: «Quella di D’Alema è una doppia eterogenesi dei fini: da un lato voleva esaltare la funzione di ArticoloUno ma ha certificato il fallimento di quella scissione, rivelatasi un fiasco tanto quanto quelle di Renzi e Calenda; dall'altro voleva promuovere un’epurazione nel Pd, ma ha finito per certificare che il Pd è un partito plurale che è tanto più forte quanto è capace di includere tutte le anime della sinistra di governo». Insomma, mostra pure pietà. Della serie: gli fa un Baffo.

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